Ci può essere una consacrazione di sé a monte della scelta dello stato di vita?

Premessa: il concetto di consacrazione è duplice e comporta in senso generale tanto l’azione discen­dente di Dio per riservarsi qualcuno o qualcosa per sé, quanto la corrispondente azione ascendente del­l’uo­mo di riservare se stesso come offerta a Dio; in senso speciale com­porta l’impegno ad appartenere totalmente, esclusivamente e perpe­tua­­mente a Dio.

Riprendendo una idea già presente nell’ebraismo antico e sviluppata nel giudaismo posteriore [1], la consacrazione per i cristiani comporta il diritto e il dovere di farsi “imitatori di Dio” [Ef 5,1], che è “tre volte santo” [Is 6,3] [2]; mediante tale imitazione, i cristiani, da creature fatte per natura “a immagine” della Trinità, tendono mediante le virtù ad es­se­re “a sua somiglianza”, e quindi ad essere, “santi come lui è santo” [Lv 19,2]: cioè “perfetti come è perfetto il Padre […] che è nei cieli” [Mt 5,48] e che, essendo invisibile, è reso vi­si­bile da Cristo. La vita cristiana si presenta dunque essenzial­mente come una imi­ta­zio­ne di Cristo, ma anche dei suoi santi nella misura in cui essi sono imitatori di Cristo [cf 1Cor 11,1].

Il cristianesimo si presenta come una imitazione di Dio, secondo il messaggio evangelico e paolino: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro nei cieli” [Mt 5,48; con l’esplicazione in 44-47]; “Siano uno come tu, Padre, sei in me, e io in te” [Gv 17,21]; “Fatevi imitatori di Dio” [Ef 5,1]; ma tale imitazione passa necessariamente attraverso l’imitazione di Cristo: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore” [Mt 11,29]; “Vi ho dato l’esempio perché così facciate anche voi” [Gv 13,15; con l’esplicazione in 12-14]; “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” [Gv 13,34]; “Dio nessuno lo ha mai visto; proprio il Figlio unigenito, che è nel seno nel Padre, lui ce lo ha rivelato” [Gv 1,18]; “Chi ha visto me ha visto il Padre” [Gv 14,9]; l’imitazione di Cristo da parte del cristiano è, per un aspetto, solo ideale (in quanto nessuno può arrivare alla sua purezza ed eccellenza di virtù); per un altro aspetto è invece attuabile: infatti “il discepolo non è più del Maestro; ma ognuno ben preparato sarà come il Maestro” [Lc 6,40], ed anzi, addirittura, “chi crede in Cristo compirà le opere che lui ha compiuto e ne farà di più grandi” [cf Gv 14,12], in quanto, ad esempio, “completerà nella sua carne ciò che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa” [Col 1,24].

A sua volta tale imitazione in maniera dinamica e tendenziale di Dio in Cristo passa attraverso l’imitazione dei santi di vita esemplare in quanto (e nella misura in cui) imitano Cristo, come Paolo stesso dice: “Fatevi miei imitatori, fratelli, come io lo sono di Cristo” [1Cor 11,1 cf 4,16 e Fil 3,17].

Il tema della assimilazione a Dio, già radicato nella tradizione platonica, è stato riespresso cristianamente da Clemente Ales­san­drino e poi sviluppato da Gregorio di Nissa e da Agostino, ma ha ricevuto la sua formu­lazione forse più classica da parte di Bonaventura: per lui, l’uomo è creato “ad im­magine e somiglianza” di Dio, in quanto dotato di un’im­ma­gine naturale (innata e imperdibile) distinta dalla somiglianza sovrannaturale infusa gratui­tamente mediante la grazia e le virtù; diversamente, Tom­maso, più vicino al senso ebraico dell’espres­sione della Genesi, intendeva la somiglianza perlopiù come una limi­tazione della immagine [3].

L’imitazione di Cristo, tematizzata spiritualmente in modo magistrale dal­l’o­mo­ni­mo libro classico della devotio moderna, è stata difesa dalle contestazioni in ambito protestante da Kierkegaard (soprattutto nel Diario). Oggi la teologia spirituale preferisce parlare di sequela di Cristo, per accentuare il carattere personale e non conformistico del discepolato cristiano; ma proprio la sequela di Cristo comporta una assimilazione a lui, non certo in senso esteriore e statico, quasi per un conformismo spirituale, ma vitale e dinamica. Inoltre il Cristo ha la pienezza dei carismi, e quindi ogni cristiano è chiamato ad imitarlo accentuando alcuni tratti piuttosto di altri; dunque solo la Chiesa nella sua totalità riesce a rendere l’immagine del volto di Cristo.

L’imitazione di Dio dà ai consigli evangelici un senso profondamente trinitario [4]: tali atteggiamenti, “consigliati” dallo Spirito di Consiglio, assimilano a Cristo ma anche alla sua conformazione al Padre; dunque, sebbene in un senso umanamente concreto solo il Cristo sia consacrato, fedele, casto, povero, obbediente, pio, filantropo, solidale, umile e mite, testimone, pacifico, l’esemplarità di tali atteggiamenti è in tutta la vita delle tre persone divine; quindi i consigli evangelici non solo permettono di inserirsi più profondamente in Cristo (in cui “si salva la vita perdendola” come il chicco di grano che muore per portar frutto); ma di entrare con lui nel circuito dell’amore trinitario, in cui “si ha la vita donandola” [cf Lc 17,33; Gv 12,24-25].

Questo spiega come mai nella consacrazione ha ordinariamente un ruolo centrale il carisma di un fondatore, che ispirato dallo Spirito Santo, come «alter Christus» in obbedienza ad una peculiare vocazione del Padre lascia ai suoi discepoli lo spi­rito o carisma che ha ricevuto. L’imitazione dei fondatori e delle fondatrici ha un senso solo nella misura in cui essi imitano a loro volta Cristo, che avendo la pienezza di tutti i carismi, può essere imitato soltanto evi­den­ziandone alcuni (come avviene nei carismi di fondazione), pur senza eliminare gli altri.

Non basta essere stati battezzati per essere santi: anche se il battesimo ci fa proprietà di Dio e già con questo sacramento noi siamo totalmente di Dio, tut­ta­via, siccome noi abbiamo la volontà libera dobbiamo fare in modo che la nostra vo­lontà si adegui al nostro nuovo essere, e si adegui perciò sempre alla volontà di Dio.

L’unica cosa al mondo che può decidere di non appartenere a Dio è la nostra libertà. Pertanto, per donarla a Dio il cristiano deve deci­dere di adeguarla alla volontà divina, e questo in due modi: giorno dopo giorno, compiendo la volontà di Dio; oppure anche facendo dono una volta per tutte della propria volontà a Dio. Ovviamente questa donazione non esimerebbe dal ripetere ogni momento il proprio “sì” personale a Dio, ma esprime­rebbe l’impegno di donazione nei confronti di Dio, il che cor­risponde alla consacrazione ascendente e riflessiva, ossia a quella che nella tradi­zione ascetica recente è definita semplicemente col termine di “con­sa­crazione”.

Secondo un esempio classico nella letteratura ascetica, è possibile regalare a Dio volta per volta i frutti del proprio albero (a seconda della stagione, tanti o pochi frutti, tutti o solo alcuni), ma è possibile anche decidere di regalare a Dio una volta per tutte l’intero albero (che faccia poi tanti o pochi frutti, non importa), e questo è quanto si fa nella con­sacrazione.

Questa con­sacrazione consiste in generale e fondamentalmente nel­l’opera di san­ti­­fi­cazione che il cristiano compie in sé. Ma in particolare e strumentalmente si intende per con­sacrazione l’atto (un tempo descritto, con termine troppo giuridico e con un improprio senso bilaterale paritetico, come “contrat­­to”, mentre semmai può richiamare il patto in senso biblico, sbilanciato cioè dalla parte della signoria e dell’iniziativa divina) che il singolo può fare davanti a Dio per dargli tutta la propria persona (con la propria vo­lontà), ad imitazione e in risposta dell’alleanza irreversibile stipulata da Dio con l’uomo e tramite lo strumento di un vincolo sacro (come ad esempio i voti), che lo impegna non tanto e non solo a fare certe cose per Dio, ma ad essere radi­calmente di lui, come Paolo e Barnaba, i quali “si sono votati al nome del Signore nostro Gesù Cristo” [At 15,26].

Sebbene ogni cosa appartenga a Dio, tuttavia la maggior parte delle cose è in “condominio” tra Dio e la creatura (la mia penna è di Dio, perché Dio l’ha creata, però è anche mia: quindi c’è una compro­prietà fra Dio e l’uomo); viceversa ci sono cose e persone dedicate total­mente, esclu­si­va­mente e permanen­temente a Dio: in questo consiste la consacrazione.

Per l’essenza della consacrazione si richiede l’assunzione dei consigli evangelici con vincoli sacri, non ne­ces­sa­riamente voti [5]. Per praticità, considerando anche il forte richiamo biblico del termine, d’ora in poi parleremo sempre di voti, sottintendendo altre forme di vincolo sacro.

Anche se già in virtù del battesimo e della cresima tutti i cristiani sono chiamati ad appar­tenere totalmente a Dio, tuttavia, per le esigenze della pedagogia della fede nella Chiesa si è sviluppata anche una vita cosiddetta di speciale consa­cra­zione, che aiuti a ricordare con determinati strumenti e vincoli (un po’ come i “fiocchi” degli israeliti) questa alleanza sponsale con Dio. I consacrati si impegnano (come anticamente i Nazirei) ad essere totalmente, esclusiva­mente e perpetuamente di Dio, e perché questo valga sempre (“sia che vegliamo sia che dormiamo”) nonostante le possibili ca­dute e le inevitabili distrazioni lo esprimono con l’assunzione di una forma stabile di vita.

Qui nasce però una difficoltà, acutamente messa in luce dalla tradizione luterana e così espressa da Kierkegaard, che commentando la parabola dei due figli, l’uno che disse di sì al padre, e poi non andò, e l’altro che gli disse di no e poi andò [cf Mt 21,28-31], notava:

quando si dice “sì” o si promette qualcosa, allora facilmente s’inganna se stessi e si ingannano facilmente anche gli altri, come se già si fosse fatto ciò che si è promesso, oppure […] come se la promessa stessa fosse un merito. […]. <Con ciò> non lodiamo il figlio che disse “no”, ma cerchiamo di capire dal Vangelo quant’è pericoloso dire: “Signorsì” [6].

 

Questo ci mostra che il voto, come ogni “sì” alla chiamata del Signore, è certamente una libera risposta, ma non una autonoma iniziativa della persona umana. Gesù lo ha detto chiaramente: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti” [Gv 15,16]. La risposta al dono è una conseguenza del dono stesso. L’insieme dei doni e dei carismi personali fornisce ad ognuno il mezzo adatto per la sua più piena santificazione e per il suo più efficace contributo al­l’e­dificazione della Chiesa e del Regno di Dio nel mondo.

Proprio dell’amore è infatti fare a persone diverse doni diversi. L’es­sen­ziale è realizzare il fine, ma è importante anche il mezzo. Così, ai fini della salvezza e della santificazione, il mezzo che è la speciale consacrazione comporta non solo l’ap­par­­te­nenza volontaria a Dio, ma anche la totalità, esclusività e per­pe­tuità (almeno in inten­zione) di tale appartenenza, in quanto elementi costitutivi della con­sacrazione come atto dell’uomo.

·      Nel diritto canonico

La consacrazione, in quanto assunzione di un impegno nella Chiesa, riguarda sempre non solo la teologia, ma anche e soprattutto il diritto canonico [7], sebbene il diritto arrivi ne­ces­­sariamente “in ritardo” sulla storia e non esaurisca la ricchezza della vita.

Per quanto riguarda il ritardo della codificazione sull’invenzione si pensi (solo per restare in questo secolo) alle vicende delle congregazioni di voti semplici, riconosciute come religiose solo nel 1900, e quelle degli istituti secolari riconosciuti dalla Provida Mater Ecclesia solo nel 1947 [8].

Ebbene, possiamo dire che ogni consacrazione data da Dio al cristiano gli conferisce un titolo (e quindi un diritto‑dovere) per intraprendere la propria san­ti­ficazione ascendente: così sono tenuti a tendere alla santità in generale quanti sono consacrati dal battesimo [9]; in maniera loro propria quanti sono “quasi consacrati” dal ma­trimo­nio [10]; in modo nuovo quanti sono consacrati dall’ordine sacro [11]; in modo nuovo e speciale i fedeli chia­mati da Dio alla vita con­sacrata [12].

Secondo un canone dal tono solenne e profondo, tale vita consiste nella “co­n­sa­­crazione di tutta la persona”, che ha come principio e causa il “mirabile connubio” con Dio, intra­preso però per sua inizia­tiva [«a Deo conditum»]; come fine d’utilità comune quello di essere “segno della vita futura”; come mezzo e fine per sé, “la totale donazione [di sé] nel sacrificio offerto a Dio”, tale da trasfor­mare l’esistenza stessa in un “inin­te­r­rotto culto a Dio nella carità” [13].

Inoltre, “la vita” (e tutta la persona) è “consacrata” a Dio “mediante la professione” (o meglio l’assunzio­ne) “dei consigli evan­gelici” “di castità, povertà e obbedienza”: secondo un dinamismo trinitario la “totale dedicazione” (o con­sacrazione) “a Dio sommamente amato” avviene mediante “la sequela più ravvicinata di Cristo” “sotto l’azione dello Spirito Santo”, che si esplica appunto nei consigli, da non solo praticare genericamente o saltuariamente, ma da assumere “per un nuovo e peculiare titolo” e in una “forma stabile di vita” [14].

Ebbene, solo poi [nel canone 599] si dice che “il consiglio evangelico di castità assunto per il Regno dei Cieli, che è segno della vita futura e fonte di una più ricca fecondità nel cuore indiviso, comporta [«secumfert»] l’obbligo della perfetta continen­za nel celibato” [15].

Che relazione c’è fra questa richiesta e l’essenza della consacrazione? Se è abbastanza chiaro che la castità intesa come indivisione del cuore a sorgente e difesa di fecondità interiore in vista della vita eterna sia una caratteristica propria della consacrazione, dobbiamo chiederci se il celibato sia l’unico modo per realizzarla.

Il problema: è possibile una consacrazione degli sposati? Ossia: c’è una con­­­sacrazione spirituale a monte della scelta di vita celibataria o sponsale?

Ci chiediamo, allora, se la con­sacrazione (in­te­­sa come il votare se stessi totalmente a Dio) sia possibile anche agli sposati [16], o meglio, se ci sia una consacrazione spirituale “a monte” di ogni scelta di stato di vita.

Da un punto di vista giuridico, in forza del canone appena citato, è chiaro che la risposta non può essere che negativa, fin tanto almeno che tale norma resterà in vigore. Tuttavia, anche da un punto di vista teologico sembrerebbe di dover rispondere di no, in forza dell’autorità di una tradizione abbastan­za consolidata [17], e anche in ragione di quanto detto finora. Infatti, se la con­sa­­crazione in senso stretto prevede i tre elementi della totalità, esclu­sività e perpetuità, il problema è come sia possibile la con­sa­cra­zione degli sposati, dal momento che, se è tutto sommato ammissibile che lo sposo sia total­mente di Dio, quello che non sembra affatto possibile è una donazione esclusiva a lui nel matrimonio. Infatti lo sposato, oltre ad appartenere a Dio, appartiene anche al coniuge: la sua appartenenza a Dio sembra perciò non avere la caratteristica dell’esclu­sività (il cosiddetto “cuore indiviso”); di conseguenza non sembrerebbe possibile parlare di una vera, piena consa­crazione degli sposati.

D’altra parte, negli ultimi anni tanto l’esegesi biblica quanto la teologia stanno rilevando come occorra distinguere la castità dal celibato e come quest’ul­timo propriamente vada an­noverato non fra i consigli proposti nella predica­zione di Gesù, ma fra quelli proposti dalla predicazione di Paolo [18].

Per di più, in questi ultimi decenni si stanno moltiplicando nella Chiesa comunità con sposi tesi a vivere i consigli evangelici nello spirito della con­sacrazione [19], in una forma di vita che ovviamente non rientra fra quelle di vita consacrata finora riconosciute dalla Chiesa, ma di cui si discute se possa almeno rientrare fra quelle nuove forme di vita consacrata [20] che saggiamente il Codice [al can. 605] ha previsto e di cui demanda ai vescovi diocesani il discernimento e l’accompa­gnamento, riservandone però l’ap­pro­vazione alla sola Sede Apostolica.

Il testo (pubblicato nel 1992) dei Li­nea­menta per il Sinodo dei Vescovi del 1994 sulla vita consacrata definisce [al paragrafo 24] tali realtà come “nuove forme di vita evangelica”, e se da una parte si riconosce che esse sono per certi versi assimilabili alla vita con­sacrata, d’altro canto si ribadisce che vanno distinte nettamente da essa; il testo poi del successivo Instrumentum Laboris, elaborato in base alle risposte e alle osservazioni pervenute e pubblicato nel giugno 1994, esprime [ai numeri 37-38] un apprez­­zamento autorevole su tali nuove forme, ma rileva la necessità di un ulteriore discer­nimento [21]. L’esortazione post‑sinodale Vita consecrata emanata poi da Giovanni Paolo II ha recepito [al n. 62] questa nuova categoria, rinviando ad altra sede la definizione del suo quadro normativo [22].

Il presente studio vorrebbe cercare di contribuire a tale riflessione, proponendo alcuni argomenti, tratti dalla Scrittura e dalla Tradizione della Chiesa, che sembrano giocare a favore della pos­sibilità di una consacrazione degli sposati (o meglio, di una distinzione fra con­sacrazione teologicamente intesa e stato celibatario), provando anche a rispondere alle principali obiezioni in contrario, specialmente per quanto riguarda l’inter­pre­­tazione del testo paolino sulla superio­rità del celibato.


[1] Ad esempio, il sapiente ebreo (della prima metà del tredicesimo secolo) Ja‘aqov Anatoli nel Pungolo dei discepoli [a cura di Luciana Pepi, Officina di Studi Medievali, Palermo 2004] intende il comando divino “Siate santi come io sono Santo” nel senso che la santificazione umana è una imitazione di Dio che consente all’uomo di passare dalla profanità (nel senso di mancanza) alla perfezione e pienezza, attraverso la conoscenza intima di Dio: infatti, essendo l’uomo simile a Dio per l’intelletto, solo attuando l’intelletto nella conoscenza più appropriata potrà realizzare pienamente la sua somiglianza con Dio.

[2] Secondo l’interpretazione spirituale che ne dà Bonaventura [cf In Hexaëmeron, 8.9-11; cf, in questo volume, il capitolo 1.3], Dio è tre volte santo in se stesso, perché “Santo è il Padre, Santo è il Figlio e Santo è lo Spirito”, ma poi si rivela tre volte santo in Cristo, che ha il corpo santo, l’anima santa e la divinità santa, in quanto le tre nature (corporea e spirituale – fuse nell’umana – e divina) sono unite nella persona del Verbo.

[3] Cf Clemente Ales­san­drino, Stromati, 2.19-20; in 2.22.136 accosta l’assimi­lazione platonica a Dio mediante la saggezza (in Teeteto, 176b) e l’imitazione paolina di Cristo e di Dio (1Cor 11,1); Gregorio di Nissa, La creazione dell’uomo, 16; L’anima e la resurrezione, 2; Agostino, indirettamente in Confessioni, 12; Bonaventura, Itinerarium, 1 e 4-5; Tom­maso, In Sententiarum, 2.16.1.4 co; ma cf anche Summa, I, 93.9.

[4] Cf Heidemarie Böhler, I consi­gli evangelici in prospettiva trinitaria. Sintesi dottrinale, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993.

[5] Cf CIC can. 573, § 2; per la problematica della evoluzione della forma giuridica degli impegni consacratori si veda Jean Beyer, Carismi e impegni, in “Vita Consacrata” 1991, p. 535-546 e 623-630.

[6] Søren Kierkegaard, Gli atti dell’amore, 1.3A [trad. it. di Cornelio Fabro, Rusconi, Milano 1983, p. 252-254].

[7] Per lo status quaestionis sul concetto di consacrazione nel diritto canonico, cf Jean Beyer, Le droit de la vie consacrée, Tardy, Paris 1988, 2 vol. (trad. it., Il diritto della vita consacrata, Milano, Ancora 1989); Gian­franco Ghirlanda, Il diritto nella Chiesa mistero di comunione. Compendio di diritto ecclesiale, PUG – San Paolo, Roma – Cini­sello Balsamo 21993, p. 169-235 (capitolo 8, sui fedeli nella vita consacrata). Per una sintesi spirituale (di chiara impronta tomistica) cf Reginaldo Bernini, La vita consacrata. Principi fonda­mentali di Teologia e di Spiritualità, Centro Riviste della Provincia Romana O.P., Pistoia 1993, interessante per l’ap­proc­cio “liturgico” alla consacrazione, vista principalmente come sacramentale [cf p. 167-174].

[8] Per quanto riguarda invece una teorizzazione di una consacrazione solo teologica e non giuridica, cf Anastasio Gutiérrez, Seguimi, Gruppo laico di promozione umano‑cristiana, in “Commentarium pro Religiosis” 1985, p. 193-208; a proposito dei membri «impegnati», ossia celibi, ma anche «famiglie a modo di membri impegnati» [p. 194], del Gruppo laico “Seguimi” (riconosciuto dalla Santa Sede come associazione privata universale di fedeli laici nel 1984), l’autore conclude che essi «sono persone consacrate teologicamente, pur non essendolo giuri­­di­camente» [p. 206], in quanto non assumono i vincoli che il diritto canonico prevede per la vita consacrata. C’è da rilevare però che se certamente si può essere consacrati anche senza voti, purché si dica un sì totale e definitivo all’amore divino, tuttavia non si può fare a meno di una certa struttura giuridica, sempre ricordando che «la legge è per l’uomo». Per evitare equivoci, sarebbe più opportuno parlare di “consacrazione non formale”, nel senso di non rientrante nella forme canoniche di vita consacrata finora riconosciute; infatti anche la “consacrazione teo­logica” così delineata comporta sempre una certa acquisizione di diritti e doveri secondo norme deter­minate (se non altro quelle del diritto proprio dell’associazio­ne), e dunque una dimensione giuridica.

[9] Tutti i cristiani in virtù della rigenerazione battesimale e dell’unzione crismale di Spirito Santo “sono con­sacrati [«consecr­antur»] in dimora spirituale e sacerdozio santo, per offrire […]se stessi come vittima vi­vente, santa e gradita a Dio” [Lumen Gentium (LG), 10a; cf Rm 12,1]; dunque sono consacrati da Dio per con­sa­crare se stessi, e in questo consiste il sacerdozio comune di tutti i fedeli [Cf Ghirlanda, Il diritto…, cit., p. 88-89, che chiama «consacrazione divina» quella che qui chiamiamo discendente o anche ontologica, e «consacrazione personale» quella che qui chiamiamo ascen­den­te e riflessiva o spirituale]. Essendo i cristiani in quanto tali consacrati, tutti pertanto sono “secondo la propria condizione” tenuti a “condurre una vita santa” [CIC, can. 210; cf LG 39-42].

[10] Gli sposi dal sacramento del matrimonio “vengono come consacrati” [«veluti consecrantur»; CIC can. 1134, che cita Gaudium et Spes, 48d, che a sua volta riprende la Casti Connubii di Pio XI], per cui è auspicabile che “giungano a condurre una vita ogni giorno più santa e più piena in famiglia”, così che il loro stato “progredisca in perfezione” [CIC can. 1063].

[11] I chierici sono “per la recezione dell’ordine a nuovo titolo consacrati a Dio” [«novo titulo consecrati»; can. 276]; e per questo “sono tenuti in modo peculiare a tendere alla santità” e a praticare in certa misura i consigli evangelici [cf CIC can. 276, 273, 277, 282, riguardanti rispet­ti­vamente la consacrazione e perfezione di vita, l’obbedienza, la castità e la semplicità di vita].

[12] I fedeli nella vita consacrata si dedicano a Dio “per nuovo e speciale titolo” [CIC can. 573, § 1] mediante l’assunzione dei consigli evangelici. Essi non ricevono per questo una previa consacrazione discendente da Dio, perché la loro vocazione è già contenuta in germe nel battesimo e nella cresima, e tuttavia possono essere corroborati da un sacramentale costitutivo che è stato interpretato come un secondo battesimo [cf Tommaso, Summa, II‑II 189.3 ad 3; Bernini, cit., p. 172]. Nella pastorale vocazionale, tutte le vocazioni che comportano l’assunzione di un nuovo titolo di san­ti­ficazione sono dette di “speciale consacrazione”, che, oltre alla “vita consacrata” canonicamente intesa, abbraccia anche le vocazioni al ministero ordinato diocesano e alla missione.

[13] CIC can. 607, § 1; questo canone definisce in realtà l’essenza della vita religiosa, ma nella parte qui ci­tata risulta valido per ogni vita di consacrazione. Si noti come ritroviamo qui tutti sintetizzati gli elementi fon­damentali della consacrazione già incontrati nell’analisi filosofica e teologica della consacrazione.

[14] CIC can. 573. Nella prosecuzione del testo si dice che la vita consacrata ha come fine quello di “conseguire la perfezione della carità nel servizio del Regno di Dio” (questo è il valore san­tificante della consacrazione), e “la gloria di Dio, l’edifi­cazione della Chiesa e la salvezza del mondo” (questo è il valore carismatico della consacrazione), da conseguire diventando “segno luminoso nella Chiesa” e “preannuncio della gloria celeste”.

[15] Si tenga presente che d’ora in poi quando si parlerà di celibato si intenderà sempre il “celibato per il Regno dei Cieli”, ossia scelto stabilmente per vocazione.

[16] Non si tratta pertanto di chiarire il rapporto fra matrimonio e verginità, tema peraltro clas­sico a partire dai Padri (si pensi ad Agostino e a Crisostomo) fino ad oggi [cf Raniero Can­ta­lamessa, Verginità, Àncora, Milano 1988; Antonio Sicari, Ma­tri­monio e verginità nella rivelazione. L’uomo di fronte alla «gelosia di Dio», Nuova Edizione, Jaca Book, Milano 1992]; bensì si cerca di studiare innanzitutto la possibilità per gli sposi di un «dono di sé nella carità» a Dio, tale che eviti «ogni “ripresa di sé”», anche «nelle relazioni coniugali più intime», e di conseguenza il rapporto fra tale donazione e la consacrazione come è intesa nella vita consacrata [Beyer, Carismi e Impegni, cit., in particolare p. 628-630, dove si affronta il tema «Consa­cra­zio­ne e Matrimonio»; cf Id., Dio è amore, in “Vita Consacrata” 1992, p. 395-403 e 598-607, 1993, p. 72-78].

[17] Tale tradizione si fonda sull’affermazione (che discuteremo in seguito) del primato del celibato, enunciata da Paolo (nel settimo capitolo della prima lettera ai Corinzi) e ripresa autorevolmente dal Concilio di Trento (nel decimo canone sul matrimonio).

[18] Una critica interessante ma radicale della teologia paolina del celibato (peraltro un po’ estremistica e viziata da qualche pregiudizio) è quella di Ortensio da Spinetoli, I Consigli Evangelici. Proposta e interpretazio­ne, Dehoniane, Roma 1990. Al contrario, una riproposizione (comunque aperta ed equilibrata) della teologia tradizionale della superiorità del celibato, inteso come stato del “cuore indiviso” è in Arnaldo Pigna, Consigli evangelici. Virtù e voti, OCD, Morena 1990 (si vedano in particolare le pagine 188-198 e 233-272).

[19] Cf il dossier pubblicato da Giancarlo Rocca su “Vita pastorale” del dicembre 1993 e ripubblicato, ampliato, come volume [Presente e futuro nella vita consacrata, Dehoniane, Roma 1994; cf in particolare p. 65-79)]; cf anche il ca­­pi­tolo 15 di Agostino Favale, Vita consacrata e società di vita apostolica. Profilo storico, LAS, Roma 1992, p. 259-286; Jean Beyer, Les mouvements nouveaux en église, in Id., Renou­veau du droit et du laïcat dans l’église, Tardy, Paris 1993, p. 143-166; e Le mariage chrétien est sacrement, ibid., p. 167-179; Ghirlanda, Il diritto…, cit., p. 241-243. Uno studio storico e canonistico aggiornato e particolareg­giato sui problemi che le nuo­ve realtà pongono alla legislazione vigente è il nono capitolo di Carlos Ignacio Heredia, La naturaleza de los movimientos ec­cle­siales en el derecho de la Iglesia, Universidad Catolica Argentina, Buenos Aires 1994 (excerpta da una più ampia tesi dottorale in diritto canonico difesa in Gregoriana nel 1992).

[20] I canonisti sono divisi su questo: aperto e possibilista è Jean Beyer [Il diritto…, cit., p. 191-196]; decisamente critico è Velasio De Paolis [La vita consacrata nella Chie­sa, EDB, Bologna 1992, p. 73-89]. Sull’interpretazione giuridica del canone 605 si veda Velasio De Paolis, Le nuove forme di vita con­sa­crata (a norma del can. 605), in “Informationes SCRIS”, 1993,2, p. 72-95.

[21] Per la discussione dei Lineamenta del Sinodo sulla vita consacrata (soprattutto a proposito del nostro tema) cf Gianfranco Ghirlanda (Ed.), Punti fondamentali sulla vita consacrata, PUG, Roma 1994 [raccoglie sei articoli tratti dalle annate 1993 e 1994 di “Periodica de re canonica”], fra cui in particolare si vedano Jean Beyer, Originalità dei carismi della vita consacrata, p. 63-98 [p. 257-292 di “Periodica” 1993]; Gianfranco Ghirlanda, Alcuni punti in vista del Sinodo dei vescovi sulla vita consacrata, p. 147-171 [p. 67-91 di “Periodica” 1994]; alcuni spunti sono stati recepiti dall’Instrumentum Laboris [37 e 38]. La Conferenza Episcopale Italiana riunita a Collevalenza dal 25 al 28 ottobre 1993 per discutere appunto della vita consacrata ha concluso i lavori con un Messaggio (pubblicato da “Avvenire” il 3 novembre) in cui si parla di persone consacrate «nella forma di vita evangelica degli istituti secolari o in altre forme di vita consacrata, alcune delle quali sono proprie alla condizione di persone sposate» (c’è da rilevare un’inesattezza, o un lapsus, nel testo: le formulazioni di «vita evangelica» e «vita consacrata» andrebbero, a rigor di termini, invertite). Sui Lineamenta del Sinodo e sulla relativa discussione dei vescovi italiani cf anche Marcella Farina, Pro­spettive femminili sul Sinodo ’94, in “Ricerche Teologiche” 1993, p. 341-369.

[22] «Lo Spirito, che in tempi diversi ha suscitato numerose forme di vita consacrata, non cessa di assistere la Chiesa, sia alimentando negli Istituti già esistenti l’impegno del rinnovamento nella fedeltà al carisma originario, sia distribuendo nuovi carismi a uomini e donne del nostro tempo, perché diano vita a istituzioni rispondenti alle sfide di oggi. Segno di questo intervento divino sono le cosiddette nuove Fondazioni, con caratteri in qualche modo originali rispetto a quelle tradizionali. L’originalità delle nuove comunità consiste spesso nel fatto che si tratta di gruppi composti da uomini e donne, da chierici e laici, da coniugati e celibi, che seguono un particolare stile di vita, talvolta ispirato all’una o all’altra forma tradizionale o adattato alle esigenze della società di oggi. Anche il loro impegno di vita evangelica si esprime in forme diverse, mentre si manifesta, come orientamento generale, un’intensa aspirazione alla vita comunitaria, alla povertà e alla preghiera. Al governo partecipano chierici e laici, in base alle loro competenze, e il fine apostolico si apre alle istanze della nuova evangelizzazione. Se, da una parte, c’è da rallegrarsi di fronte all’azione dello Spirito, dall’altra è necessario procedere al discernimento dei carismi. Principio fondamentale, perché si possa parlare di vita consacrata, è che i tratti specifici delle nuove comunità e forme di vita risultino fondati sopra gli elementi essenziali, teologici e canonici, che sono propri della vita consacrata. Questo discernimento si rende necessario a livello sia locale che universale, allo scopo di prestare una comune obbedienza all’unico Spirito. Nelle diocesi, il Vescovo esamini la testimonianza di vita e l’ortodossia di fondatori e fondatrici di tali comunità, la loro spiritualità, la sensibilità ecclesiale nell’adem­pi­mento della loro missione, i metodi di formazione e i modi di incorporazione alla comunità; valuti con saggezza eventuali debolezze, attendendo con pazienza il riscontro dei frutti (cfr Mt 7, 16), per poter riconoscere l’autenticità del carisma. In special modo a lui è chiesto di stabilire, alla luce di chiari criteri, l’idoneità di quanti in queste comunità domandano di accedere agli Ordini sacri. In forza dello stesso principio di discernimento, non possono essere comprese nella specifica categoria della vita consacrata quelle pur lodevoli forme di impegno che alcuni coniugi cristiani assumono in associazioni o movimenti ecclesiali, quando, nell’in­ten­to di portare alla perfezione della carità il loro amore, già “come consacrato” nel sacramento del matrimonio, confermano con un voto il dovere della castità propria della vita coniugale e, senza trascurare i loro doveri verso i figli, professano la povertà e l’obbedienza. La precisazione doverosa circa la natura di tale esperienza non intende sottovalutare questo particolare cammino di santificazione, a cui non è certo estranea l’azione dello Spirito Santo, infinitamente ricco nei suoi doni e nelle sue ispirazioni. Di fronte a tanta ricchezza di doni e di impulsi innovativi, sembra opportuno creare una Commissione per le questioni riguardanti le nuove forme di vita consacrata, allo scopo di stabilire criteri di autenticità, che siano di aiuto nel discernimento e nelle decisioni. Tra gli altri compiti, tale Commissione dovrà valutare, alla luce dell’esperienza di questi ultimi decenni, quali nuove forme di consacrazione l’autorità ecclesiastica possa, con prudenza pastorale e a comune vantaggio, riconoscere ufficialmente e proporre ai fedeli desiderosi di una vita cristiana più perfetta. Queste nuove associazioni di vita evangelica non sono alternative alle precedenti istituzioni, le quali continuano ad occupare il posto insigne che la tradizione ha loro assegnato. Le nuove forme sono anch’esse un dono dello Spirito, perché la Chiesa segua il suo Signore in perenne slancio di generosità, attenta agli appelli di Dio che si rivelano mediante i segni dei tempi. Così essa si presenta al mondo variegata nelle forme di santità e di servizi, quale “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”. Gli antichi Istituti, tra cui molti passati attraverso il vaglio di prove durissime, sostenute con fortezza lungo i secoli, possono arricchirsi entrando in dialogo e scambiando i doni con le fondazioni che vengono alla luce in questo nostro tempo. In tal modo il vigore delle varie istituzioni di vita consacrata, dalle più antiche alle più recenti, come pure la vivacità delle nuove comunità, alimenteranno la fedeltà allo Spirito Santo, che è principio di comunione e di perenne novità di vita» [La traduzione è quella ufficiale vaticana; i corsivi sono redazionali].

 

Da: Questioni su consacrazione e matrimonio (a proposito delle «nuove forme di vita evangelica»), da Cristianesimo come consacrazione (1994, 2007, 2010)