La storia della vita consacrata ha via via allargato il concetto di consacrazione

Primo argomento: l’evoluzione della vita consacrata ha finora sempre portato ad allargarne le basi e a meglio comprenderne e valoriz­zarne l’essenza.

La storia della vita consacrata può essere in un certo senso riletta come la storia dell’interpretazione di alcuni passi del Vangelo, primo fra tutti quello della chiamata del giovane ricco: “Va’, vendi quello che hai e dàllo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e segui­mi” [Mt 19,21], che però non fa alcuna menzione del celibato. Sembrano invece più espliciti due altri passi relativi alla sequela, quando Gesù dice ai suoi discepoli: “Se qualcuno mi vuol seguire rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” [Lc 9,23]; e ancora: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la sua stessa vita, non può essere mio discepolo” [Lc 14,26].

Ebbene, il cuore della sequela è il rinnegamento di sé (ovvero della propria natura corrotta) e il segreto di tutto sta nell’“o­diare […] perfino la propria vita”, perché tutto il resto viene di conseguenza. Ma cosa significa questo in concreto?

·      I martiri

Agli albori del cristianesimo il passo in questione poteva essere spon­taneamente applicato innanzitutto agli apo­stoli (perché essi per primi avevano lasciato tutto per seguire Cristo, fino a dargli tes­timonianza con il sangue), e, succes­sivamente, ai molti martiri che avevano “odiato” e “di­sprez­zato la propria vita, fino a morire” [Ap 12,11] per Cristo; e in effetti “il martirio, col quale il discepolo è reso simile al maestro” [Lumen Gentium, 42b] è divenuto il paradigma di ogni santità e della stessa con­sa­crazione [1].

·      Gli eremiti

Tuttavia a mano a mano che il cristianesimo cominciava ad essere prima tollerato e infine addirittura assunto a religione di stato, si sviluppò il movimento di quei cristiani che volendo vivere da veri discepoli di Cristo ab­ban­donavano le città per ritirarsi nel deserto, scoprendo un nuovo modo di mettere in pratica questo passo evan­gelico: la vita ere­mitica. Gli eremiti per meglio rinnegare se stessi lasciavano padre, madre, famiglia, beni, la vita della città e addirittura la compagnia dei propri simili. Essi pur non morendo fi­si­camente come i martiri, accettavano una sorta di “morte al mondo” [2].

·      Ordini monastici e canonici regolari

Però, la storia ha mostrato che l’eremitismo non era che una delle pos­sibili forme (non esente tra l’altro da esagerazioni e stranezze) di vita evan­gelica, sicché si è sempre più sviluppata la vita comune, all’interno di monasteri o cenobi (quasi sempre in luoghi appartati), oppure in comunità canonicali: qui la morte al mondo compor­tava il ritirarsi dalla vita familiare e cittadina, ma non da una vita sociale e dal lavoro (manuale ed intellettuale). La letteratura monastica insiste sul fatto che il rin­negamento di sé va inteso tanto esteriormente, quanto (soprattutto) interior­mente, e cioè come un non essere attaccati a se stessi e rinnegare la propria superbia, il proprio io, il che poteva farsi anche (o ancor meglio) in comunità [3].

Il monachesimo ha così caratterizzato l’alto medioevo, che i teologi distin­guevano tre categorie di fedeli nella Chiesa: i chierici, i laici e i monaci [4], questi ultimi caratteriz­zati dall’“uscita dal mondo” (reinterpre­ta­zione dell’antica “morte al mondo” degli eremiti), di cui il cambio del nome al momento della professione è un segno efficace.

·      Ordini mendicanti, militari, ospedalieri

Quando però all’inizio del Duecento cominciarono a diffondersi gli ordini mendicanti (grazie a Francesco e a Domenico), col desiderio di vivere una vita evange­lica, e quindi anche (a differenza dei monaci) at­tivamente evangeliz­zatrice, teologi e canonisti non sapevano come inquadrar­li. A differenza dei monaci, i frati fondano conventi nelle città, vengono spostati da un convento all’altro (contro la tradi­zionale stabilità monastica), sostitui­scono il lavoro manuale con la predica­zione, recitano velocemente l’ufficio divino, si sosten­tano chiedendo l’elemosi­na, assumono a volte alcuni dei compiti tradizionali dei chierici secolari (come predicare e confes­sare); a differenza dei chierici non sono incardinati in una diocesi e sono esentati dalla giu­ri­sdizione del vescovo e vivono in povertà ed obbedienza come i monaci. Sono noti sia i conflitti pastorali tra frati e preti secolari sia i conflitti dottrinali tra teologi tradi­zio­na­listi (che accusavano i mendicanti di essere un pericolo per la Chiesa) e teologi mendicanti (come Tommaso e Bonaven­tura) [5], protrattisi per decenni, fino alla completa assimilazione della novità nell’ordine costituito: la triade ecclesiologica di “chierici”, “laici” e “monaci” venne sostituita con quella (più aggior­nata) di “chierici”, “laici” e “religiosi”, destinata a giungere fino ad oggi: col nome di ‘religiosi’ vennero indicati tutti quelli che per meglio vivere la virtù di religione abbrac­ciavano una Regola in una Religione (nome generico che valido tanto per gli ordini monastici, men­dicanti, ospeda­lieri o militari).

Gli ordini mendicanti (a partire da quello minoritico fondato da Francesco) normalmente prevedevano accanto a sé un secondo ordine femminile (che per il diritto canonico del tempo doveva essere claustrale) ma anche un “terzo ordine” secolare, per uomini e donne, sposati e non; nel corso della storia, qualche gruppo di terziari celibi dello stesso sesso si costituì in terz’ordine regolare, con la pratica dei consigli evangelici nel celibato a vita comune.

Altre forme di vita religiosa apostolica formatasi nel basso medioevo furono gli ordini militari o cavallereschi (di fatto tutti trasformatisi, nel giro di pochi secoli, dal primitivo scopo di difesa nei territori “di infedeli” conquistati o riconquistati dai cristiani, a scopi di assistenza) e quelli ospedalieri e quelli dediti al riscatto dei cristiani fatti schiavi in guerra o in seguito a razzie. Tutte queste forme di vita religiosa svilupparono forme di professione dei consigli evangelici in attività comunemente considerate secolari.

Sono noti alcuni esempi di “vita regolare” medievale a cui erano ammessi a diverso titolo anche i coniugati, come in alcuni monasteri, o in Terzi Ordini con impegni regolari, e soprattutto in alcuni ordini militari [6]. Queste forme di vita regolare per sposati erano note allo stesso Tommaso d’Aquino, il quale però le riteneva solo impropriamente «religiones» (ossia ordini religiosi), in quanto “partecipano [solo] alcuni elementi pertinenti allo stato religioso” [7], ma la motivazione che Tommaso ne dava (ossia che gli sposati sono impediti dalla perfezione a causa del piacere sessuale, identificato con la concupiscenza, e dalla sollecitudine per la famiglia) è però, come vedre­mo, abbandonata dalla teologia.

Non si deve infine dimenticare, in ambito ortodosso bizantino, la splendida opera del grande teologo laico, Nicola Cabasilas, sulla Vita in Cristo, quale fondazione mistagogica della vita di ri‑consacrazione del cristiano a Dio in ogni condizione di vita.

·      Ordini di chierici regolari

Nel Cinquecento c’è da annoverare un’altra novità: la nascita delle società di chierici regolari. In particolare, la Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio, assunse caratteristiche diverse da quelle tradiziona­li. Ignazio abolisce l’obbligo del “coro” (la recita comunitaria dell’“ufficio divino”) e l’abito religioso (i chierici avrebbero vestito l’abito ecclesias­tico della regione), in quanto la Compagnia non ha una vita conven­tuale, ma è una comunità che disperde i suoi membri nei più diversi campi di apostolato. Anche queste (ed altre) innovazioni non furono accettate sempre senza problemi, tanto che per diverse decine di anni i papi hanno più volte rimesso in discussioni alcune di queste par­ticolarità, finché anche il modello dei gesuiti venne accolto come un modo (molto imitato) di impostare la vita religiosa.

Sempre in età moderna (tra il Cinquecento e il Settecento), le comunità femminili di vita apostolica che si andavano formando (in particolare, la Compagnia di Sant’Orsola fondata nel 1535 da Sant’Angela Merici, e le Figlie della Carità fondate nel 1633 da San Vincenzo de’ Paoli), non rientrando nelle condizioni canoniche prescritte per la vita religiosa femminile (allora solo claustrale), sceglievano una configurazione diversa. Ancora oggi, le Figlie della Carità non rientrano tra gli istituti di vita religiosa, ma tra le Società di Vita Apostolica (in quanto non prevedono, ad esempio, una incorporazione formale mediante emissione di voti).

Inoltre, ai primi del Seicento, Francesco di Sales nella sua Filotea o Introduzione alla vita devota motivava dal punto di vista spirituale la vita di devozione o consacrazione (in senso lato) a Dio nella condizione laicale secolare e nello stato coniugale.

·      Congregazioni religiose

Successivamente, nell’Ottocento nascono le congregazioni, anch’esse con alcune novità che hanno fatto dubitare per un po’ di tempo che rientrassero nella vita religiosa. Don Bosco, ad esempio, ha voluto che per i suoi Salesiani il voto di povertà non avesse più valore anche civile (con la perdita della capacità giuridica di possedere beni), sicché veniva a cadere uno degli ultimi segni della “morte al mondo” che caratterizzava la vita religiosa medievale.

Nello stesso periodo, cominciarono a formarsi nuovi istituti di missionari (o Società di Vita apostolica), che pur avendo vita comune e una pratica dei consigli evangelici preferivano strutturarsi secondo un modello nuovo che non rientrava nella vita religiosa.

·      Istituti secolari

Forse però la più grande innovazione nella storia della vita consacrata c’è stata nel Novecento con la nascita “ufficiale” degli isti­tuti secolari, quando cioè, dopo molte titubanze, nel 1947 Pio XII ha stabilito la possibilità di una vera vita secondo i consigli evangelici anche rimanendo nel mondo. Questo ha comportato anche una innovazione terminologica e concettuale: da allora il termine di “consacrazione” ha indicato la realtà comune a tutti i diversis­simi istituti religiosi o secolari. In tal modo la definizione della vita consacrata si è spostata dall’“uscita dal mondo” (come prima si intendeva la profes­sione religiosa) alla pratica dei consigli evangelici nel celibato.

Soprattutto nel motu proprio Primo feliciter, emanato dal papa Pio XII l’anno successivo, veniva chiarita la natura della consacrazione secolare, effettuata “non solo nel mondo, ma con i mezzi del mondo” [8] (e quindi non nonostante la secolarità, ma al contrario proprio tramite essa).

Insomma, per estendere la pratica dei consigli evangelici anche ai secolari si è dovuto ricorrere [cf Perfectae Caritatis 1d] al concetto di con­sacrazio­ne, che è più profondo di quello di professione religiosa: infatti c’è una consacrazione che alcuni vivono secondo la forma della professione religiosa, cioè pubblicamente e visibil­mente, e c’è un’altra forma di consacrazione che si può vivere riservatamente nella condizione del secolo.

Benché messa in crisi con il riconoscimento degli istituti secolari, la triade medievale di “chierici”, “laici”, “religiosi” è arrivata fino ai testi del Concilio Vaticano II: in particolare la Lumen Gentium l’ha adottata, tacendo degli Istituti Secolari, che vennero menzionati comunque nel decreto Perfectae Caritatis [11], dedicato al rinnovamento della vita religiosa [9].

Nel Codice di Diritto Canonico del 1983 è sparita la effettiva distinzione giuridica tra Ordini religiosi e Congregazioni religiose (rientrando tutti nella categoria di Istituti Religiosi), e comunque Istituti Religiosi, Società di Vita Apostolica e Istituti Secolari sono tutti accomunati nella pratica dei consigli evangelici.

·      Riflessioni conclusive

Questo excursus storico mostra la progressiva presa di coscienza e isti­tuzionalizzazione della vita consacrata, più che la sua intrinseca evoluzione. Infatti, molte forme di vita si sono affermate nella prassi ben prima del loro riconoscimento formale, e altre, sebbene sviluppatesi fortemente in passato, non sono mai venute meno nella Chiesa; tutte poi sono riconducibili alla multiforme vita di Gesù: infatti, dice il Codice di Diritto Canonico del 1983:

Moltissimi sono nella Chiesa gli istituti di vita consacrata, che hanno differenti doni secondo la grazia loro data: più da vicino, infatti, seguono Cristo sia che preghi, sia che annunzi il Regno di Dio, sia che benefichi gli uomini, sia che ne condivida la vita nel mondo: comunque, sempre facendo la volontà del Padre [can. 577].

Questi caratteri sono compresenti (ma in misure diverse) in ogni forma di vita cristiana, che ne accentuano l’una o l’altra, ma non per propria preferenza, ma per rispondere ad una precisa volontà del Padre su ciascuna persona e ciascuna comunità.

E se la consapevolezza chiara di una vita consacrata al Padre nella laicità e secolarità si è fatta strada solo lentamente nella storia, questo non deve far dimenticare che quella era la modalità di vita della santa famiglia di Nazaret, e che lo stesso Gesù, dal punto di vista ebraico, era un semplice laico: sicché la vita cristiana laicale secolare evangelicamente intesa fa propria

la missione di Gesù che passa in mezzo alla gente, nascondendosi nella sua umanità e restando scono­sciuto alla grande storia del suo tempo. Poca gente del suo popolo si era accorta di Gesù e del suo modello di santità [10].

Comunque, a voler generalizzare queste osservazioni, possiamo forse dire che nella storia del­la istituzionalizzazione della vita consacrata vige una legge di evoluzione che per un verso porta ad allargare sem­pre più le basi della vita consacrata (estende­ndola a cerchi concentrici nel popolo di Dio e radicandola più profondamente nel popolo di Dio e nel mondo), e per l’altro verso co­stringe ad andare sempre più in profondità per poterne formulare con sempre maggior pre­cisione l’essenza­ [11], ossia pres­cin­dendo da quanto è accidentale (e legato all’epoca sto­rica di fondazione e alla missione particolare di questo o quell’istituto o gruppo di istituti).

Sembrerebbe dunque verosimile che allargare la categoria della vita di consacrazione agli sposati possa giovare ad intenderne più profon­damente il senso (il rinnegare se stessi per essere totalmente di Dio), sì che questo ridondi a vantaggio anche della vita consacrata celibataria tradizio­nale.

Corollario: se si ammette la possibilità di una con­sacrazione per chi rinuncia a prender moglie ma non a restare coi familiari, è difficile negarla per chi è sposato.

Rileggiamo alla luce della storia della vita consacrata appena delineata il discorso di Gesù da cui eravamo partiti: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la sua stessa vita, non può essere mio discepolo”.

Se per i religiosi mettere in pratica questo brano signifi­ca non solo rinunciare a sposarsi, ma anche lasciare la propria casa ed entrare nella vita religiosa, per i membri degli Istituti Secolari, invece, significa rinun­ciare sì ad avere moglie e figli, ma non neces­sariamente a vivere con il padre, la madre, i fratelli e le sorelle e nemmeno significa rinunciare a possedere beni o ad esercitare (in autonomia, ma con coerenza e responsabilità) le proprie attività secolari: e questo non sminuisce affatto la loro con­sacrazione, in quanto la loro rinuncia (invisibile ma reale) è all’attac­camento alle realtà del mondo.

Ma allora, se ai membri di Istituti Secolari è possibile vivere con i parenti e a casa propria pur rinunciando spiritual­mente ad ogni attaccamento egoistico ad essi, perché non è possibile agli sposati fare lo stesso con i rispettivi coniugi e figli?

Non sarebbe questa la logica conseguenza di quanto affermava Paolo? “Chi ha moglie viva come se non l’avesse […]. Chi compra viva come se non possedesse. Chi usa di questo mondo viva come se non ne usasse appieno, perché passa la scena di questo mondo” [1Cor 7,29-31]. La forma di vita consacrata secolare ha finora messo in pratica la seconda e la terza di queste indicazioni: perché non dovrebbe esser possibile realizzare anche la prima?


[1] Se il martire è stato dalle origini modello di santità e consacrazione (e fino ad oggi [cf De Paolis, Le nuove forme…, cit., p. 85-86]), invece le vergini e le vedove, che venivano iscritte in un apposito catalogo, formando così un vero e proprio ordo ecclesiale [cf 1Cor 7; 1Tm 5,3-16], costituivano in parte un ministero nella Chiesa, e in parte oggetto di carità da parte della Chiesa stessa, che provvedeva al loro sostentamento.

[2] La letteratura dei Padri del deserto è ricca di aneddoti e di apoftegmi in proposito (ad esempio a proposito di Arsenio, nella serie alfabetica delle Vitae patrum).

[3] In questa linea si collocano gli Insegnamenti spirituali di Doroteo di Gaza [edizione bilingue greca e francese (a cura di Regnault e Préville) in Dorothée de Gaza, Oeuvres spirituelles, Paris 1963 (Sources Chrétiennes 92); edizione italiana pubblicata a Roma da Città Nuova nel 1979] (si veda in particolare il primo capitolo, sulla rinuncia), come pure la Regola benedettina.

[4] La triade attraverso alcune auctoritates patristiche (di cui una, in particolare, di Gregorio Magno) è giunta anche a Tommaso (che la riporta implicitamente in Catena aurea in Matthaeum, 24.11) e a Bonaventura (che la usa esplicitamente nelle Collationes in Hexaëmeron, 22.17).

[5] Cf quanto ho trattato in San Bonaventura e la teologia francescana, in Enrico dal Covolo, Giuseppe Occhipinti, Rino Fisichella, Storia della Teologia, EDB, vol. 2, Bologna 1996, p. 59-104; e nelle note a San Bonaventura, Questioni disputate sulla perfezione evangelica [nel volume 14/2 dell’edizione bilingue delle Opere di San Bonaventura, Città Nuova, Roma 2005].

[6] Sono noti almeno tre esempi di “vita regolare” a cui erano ammessi anche i coniugati [cf Heredia, La na­tu­raleza de los movimientos…, cit., p. 143-146 e 150-151, che allega copiosa documentazione]: l’o­spi­talità sta­bile accordata a famiglie nei monasteri (prevista ad esempio dalla Regula communis di San Fruttuoso di Braga), la partecipazione di sposati ai Terzi Ordini con impegni specifici, ma soprattutto l’ammissione (riconosciuta dalla Santa Sede fino all’epoca tridentina) di uo­mini coniugati in alcuni Ordini Militari (come l’Ordo militiae Sancti Iacobi, la cui regola ammetteva a pari titolo non solo pre­ti e uomini laici celibi, ma anche uomini sposati, i quali si impegnavano a osservare, secondo il consiglio paolino, l’astinenza periodica).

[7] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II‑II, 186.4 ad 3; cf (per la motivazione) il corpo dell’articolo.

[8] Cf il n. 6 (in traduzione ufficiale vaticana): «Tutta la vita dei soci degl’Istituti Secolari, consacrata a Dio con la professione della perfezione, deve convertirsi in apostolato, il quale si deve esercitare sempre e santamente con tale purità d’intenzione, intima unione con Dio, generosa dimenticanza e forte abnegazione di se stesso e amore delle anime, che non manifesti solamente lo spirito interiore che lo informa, ma che anche lo alimenti e lo rinnovi continuamente. Questo apostolato, che abbraccia tutta la vita, suol essere sentito sempre così profondamente e così sinceramente in questi Istituti, che coll’aiuto e la disposizione della Divina Provvidenza sembra che la sete e l’ardore delle anime non abbia dato soltanto la felice occasione alla consacrazione della vita, ma che in gran parte abbia imposto il suo ordinamento e la sua fisionomia particolare; e che in modo meraviglioso il così detto fine specifico abbia richiesto e creato anche quello generico. Questo apostolato degl’Istituti Secolari, non solo si deve esercitare fedelmente nel mondo, ma per così dire con i mezzi del mondo, e perciò deve avvalersi delle professioni, gli esercizi, le forme, i luoghi e le circostanze rispondenti a questa condizione di secolari».

[9] Si sa che a nome degli istituti secolari Giuseppe Lazzati avesse cercato, ma inutilmente, di ottenere una trattazione migliore della consacrazione secolare nei documenti conciliari, ma che comunque fosse riuscito a far migliorare il testo poi approvato in Perfectae Caritatis [cf Giuseppe Lazzati, Consacrazione e secolarità,  AVE, Roma 1987, p. 67-71].

[10] Carlo Maria Martini, Discorso del 14 dicembre 1994.

[11] Sarebbe del tutto fuorviante interpretare l’evoluzione della vita consacrata o come una «progressiva decadenza» (considerando quindi la sua prima forma, quella monastica, come «nata perfetta» e come paradigma per misurare tutte le forme successive), o viceversa come un continuo progresso verso la perfezione: al contrario, ogni forma di vita «possiede contenuti, metodi e mezzi per portare alla perfezione della vita cristiana i suoi membri», anche se non va dimenticata «la stretta correlazione tra “moduli di vita consacrata e contingenze storiche”», e quindi la continua necessità di aggiornamento e inculturazione [Favale, Vita consacrata…, cit., p. 288-289].