La consacrazione dello sposato consiste nell’amare il coniuge in Dio

Secondo argomento: la consacrazione per lo sposato potrebbe consistere nel rinunciare al “proprio” coniuge per riaverlo in modo nuovo da Dio.

Nel trattare la nostra questione è divenuto ineludibile chiarire (nella frase di Gesù: “Se uno non odia suo padre, sua madre…”) quale sia, al di là delle ap­plicazioni pratiche, il significato teologico di questo “odiare”.

Kierkegaard, in Timore e Tremore, stigmatizza la tentazione di predicatori e commen­ta­tori di ridurre l’“odiare” all’“amar di meno” (di cui il passo parallelo di Matteo [10,37] parla). Invece, “odiare” vuol dire smettere di amare con amore puramente umano e riamare in Dio.

L’esempio di questo è costituito dal sacrificio di Abramo, “padre nel­la fede”: avuto il figlio della promessa, si vede chiedere da Dio in sacrificio Isacco. Abramo va sul monte, è disposto a sacrificare Isacco, ma per la sua fede Isacco gli è restituito, però in maniera nuova: non più come figlio suo, ma come figlio di Dio, figlio della promessa. Questo è quello che deve fare ognuno che ha davvero la fede, e in questo Abramo ci è padre, perché ci ha mostrato il duplice movimento della fede: il primo è ri­nun­ciare a tutto per fede, ma il secondo è che Dio, vista la mia fede, mi re­stituisce tutto in maniera nuova, una maniera che non è più mia, ma è di Dio.

Questo è un tema classico nella letteratura spirituale: si pensi al “riferire tutto a Dio” di cui parla più volte Tommaso [cf In Symbolum, 1]; e all’indifferenza per Ignazio di Loyola (formulata nel Principio e Fondamento degli Esercizi Spirituali), che culmina nella contemplazione per ottenere l’amore con l’offerta di sé a Dio: “Ricevi […] ciò che [da te…] ho ricevuto”. Ma anche nella piccola via di Teresa di Lisieux, l’essenziale è la carità, con cui si può essere “cuore nella Chiesa”.

Dietro questo tema spirituale, c’è la profonda verità metafisica della trascendenza‑immanenza (senza separazione e senza confusione) del Dio creatore nel mondo: infatti, se Dio fosse solo il valore più grande, separato da tutti gli altri valori, una relazione di impegno con lui escluderebbe ogni altra relazione di impegno con le creature; ma siccome Dio è il valore infinito che dà valore anche ad ogni valore finito, è possibile (se questo corrisponde alla sua volontà) inserire nella relazione di impegno esclusivo con lui anche l’impegno nelle realtà temporali e l’impegno matrimoniale stesso, giacché “in lui viviamo, ci muoviamo e siamo” [At 17,28].

A ben guardare, il doppio movimento della fede descritto da Kierkegaard è implicito nel sacrificio di sé e delle proprie cose che si realizza nei voti, e in particolare in quelli emessi nella secolarità: ad esempio chi fa voto di povertà rinuncia alla proprietà dei suoi beni personali per farne dono a Dio, ma Dio (mediante l’istituto o la comunità) glieli riaffida come in am­ministrazione. Apparen­temente non è cambiato niente, ma nella sostanza tutto è cambiato.

Ma allora, se questo vale per la povertà (in particolare per quella vissuta negli Istituti Secolari), altrettanto dovrebbe valere per la castità evangelica (intesa come qualcosa di più che la castità minimale o di precetto): essa non sembra essere patrimonio soltanto del celibe per il Regno (che ha rinunciato a prender moglie e ad avere figli), ma anche di quello sposo che rinun­ciasse a con­siderare possessivamente la propria moglie e i propri figli, ben sapendo che essi gli vengono ridonati in maniera nuova: una moglie vista non più come solo “sua”, ma come figlia di Dio e come sorella in Cristo, oltre che come moglie per volontà di Dio; e dei figli visti non più come figli solo “suoi”, ma come figli di Dio da allevare e da educare; coniuge e figli, insomma, che condividono la vita a diverso titolo con lui, ma che appar­tenen­gono prima di tutto a Dio.

In effetti, ogni voto deve riguardare un “bene migliore e possibile” [1], e quindi non può limitarsi a promettere a Dio qualcosa che gli è già dovuto per pre­cetto; di conseguenza, il voto di castità nello stato coniugale deve prevedere l’offerta a Dio di tutta la vita co­niu­gale, il cui segno esteriore può ben essere, secondo il consiglio paolino, quello dell’astinenza periodica, pur­ché praticata a difesa e sorgente di vita interiore e per purificare l’amore coniugale dai residui di con­cupi­scenza.

Questo è appunto quanto diceva Paolo: “Chi ha moglie viva come se non l’avesse; chi possiede come se non possedesse; chi usa di questo mondo come se non ne usasse appieno, poiché passa la scena di questo mondo”.

Terzo argomento: la dottrina dei primi Padri, di alcuni scrittori ecclesia­sti­ci e del magistero recente apre dei varchi alla con­sacrazione degli sposati, mentre la minore consi­derazione che una certa tradizione ha del matrimonio è imputabile almeno in parte ad una concezione ormai superata della sessualità.

Quanto abbiamo detto relativamente alla evoluzione della vita consacrata lo possiamo ritrovare negli spunti teologici che diversi Padri e autorevoli scrittori ecclesias­tici, oltre che gli ultimi papi hanno dato.

·      Negli antichi Padri della Chiesa

Esaminiamo innanzitutto la dottrina su celibato e matrimonio di alcuni dei Padri più an­ti­chi, che sembra caratterizzata dal grande apprezzamento per il celibato (novità cristiana rispetto alla tradizione prevalente tanto pagana quanto giudaica), ma senza preclusione per una vita matrimoniale evangelicamente piena. Ancora in epoca apostolica, Ignazio di An­tiochia così scriveva a Policarpo [5.2] [2]:

Se qualcuno può man­tenersi continente in onore del corpo del Signore lo faccia senza vantarsi, e se se ne vanta è perduto e se non ha il riconos­cimento del Vescovo è rovinato. Anche agli uomini e alle donne che si sposano conviene sposarsi con il riconos­cimento del Vescovo, affinché le nozze siano fatte secondo il Signore e non secondo la concupiscen­za. Ogni cosa [ossia tanto il celibato quanto il matrimonio], si faccia per l’onore di Dio.

C’è qui tutta la con­siderazione del matrimonio come piena vocazione: cioè ci si deve sposare non per concupiscenza ma per vocazione, e viceversa si deve scegliere il celibato non per comodità propria ma per vocazione.

Nelle Sentenze di Sesto [230a, 230b e 232] troviamo disposizioni per i celibi: “Dio ti concede di rifiutare le nozze per vivere come suo familiare”; per gli sposati: “Pur sapendo che si tratta di una dura lotta, agisci da uomo: sposati e genera figli”; e per entrambi: “Non fare nulla per amore del puro piacere” [3].

Origene (che pure nelle sue affermazioni in materia non è sempre coerente), nel Com­mento alla lettera ai Romani [9.1], riguardo al passo “Vi esorto fratelli ad offrire i vostri corpi come sacrificio spirituale gradito a Dio” [Rm 12,1-2], dice:

Vittima vivente, santa e gradita a Dio è il corpo incontaminato, ma poiché vediamo che alcuni santi anche tra gli apostoli furono sposati, non possiamo pensare questo solo in riferimento alla verginità […]. Dunque nella Chiesa dopo gli apostoli la prima vittima è quella dei martiri, la seconda quella dei vergini, la terza quella dei continenti, […] <e la quarta è> quella degli sposati che si accordano per tenersi liberi temporaneamente per dedicarsi alla preghiera, adempiendo così i voti dei nazirei [4].

In questo testo troviamo da una parte la riflessione teologica sull’e­vo­lu­zione delle categorie di santi (apostoli, martiri, vergini) nei primi tre secoli della Chiesa, ma tro­viamo anche già delineata quella che abbiamo chiamato la con­sa­crazione speciale a Dio, unica nella sostanza per tutti, pur essendo diversa nelle sue modalità concrete: si può infatti offrire se stessi a Dio in tanti modi, e non solo quello degli apostoli, quello dei martiri, quello dei vergini e quello dei continenti (ossia di quanti hanno as­sun­to il celibato pur non essendo sempre stati vergini), ma anche quello degli sposi che accolgono il consiglio paolino dell’asti­nenza periodica “per dedicarsi alla pre­ghiera” [1Cor 7,5] e che quindi sono equiparati ai nazirei (i consacrati ante lit­te­ram). In effetti “dedicarsi alla preghiera” è pressocché sinonimo di “consacrarsi a Dio” (in­fatti, gli sposi non pregano solo quando si astengono dai rapporti, ma l’astinen­za pe­riodica diviene segno e strumento di una offerta spirituale completa e continua a Dio).

Questo argomento in favore di una certa consacrazione degli sposati è di grande rilievo, soprattutto considerando la grande stima di Origene per ­l’eu­nuchia per il Regno (al punto di averla in gioventù intesa erroneamente alla lettera).

Inoltre, nel Commento alla prima lettera ai Corinzi [37], riguardo al versetto “la circoncisione non conta nulla e la non‑circoncisione non conta nulla” [1Cor 7,19], Origene ne fa una lettura spirituale per i cristiani del suo tempo, interpretan­do la circoncisione come celibato e la incircon­cisione come matrimonio:

Poiché taluni credono che chi è celibe sia per ciò stesso in condizione più van­taggiosa di chi non lo è, mentre chi è sposato sarebbe in condizione inferiore rispetto al celibe per il fatto stesso di essere sposato, vo­glia­mo […] insegnare che il celibato, come pure il matrimonio sono per loro natura indifferenti; infatti, se uno è celibe […], ma per il resto vive male, non riceve alcun vantaggio dal suo celibato; mentre chi è sposato, se as­solve i suoi doveri con ordine e nei tem­pi opportuni e osserva il resto delle norme morali, non è inferiore al celibe [5].

Il dovere di cui si parla è quello del rapporto coniugale, di cui accennava Paolo nella prima lettera ai Corinzi [7,3]; tale “debito” va co­munque assolto “con ordine” (cioè “non per concupis­cenza”, come raccomandava il libro di Tobia [8,7-9]) e nei tempi opportuni (accoglie­ndo il consiglio dell’asti­nenza periodica). L’affermazione origeniana che lo sposo a certe condizioni (non dunque in ogni caso) “non è inferiore al celibe” è di grande portata, se non altro come testimonianza di una tradizione in proposito diversa da quella a cui siamo abituati.

·      In Agostino e nella tradizione da lui ispirata

Quella che invece è divenuta la tradizione dominante ha trovato in occidente il suo punto di riferimento in Agostino, il quale, pur difendendo strenuamente la di­gni­tà del matrimonio, è stato anche uno dei più decisi sos­tenitori non solo della su­pe­rio­ri­tà del celibato sul matrimonio ma anche della corruzione insita nel piacere sessuale.

Ciò nonostante, Agostino ci ha lasciato un testo [6] che fa una eccezione per Abramo. Se il celibato è infatti più perfetto del matrimonio, come mai Abramo, che ci è padre nella fede, era sposato?

Se a un cristiano continente si dicesse: – Tu dunque sei migliore di Abramo! – egli dovrebbe risponde­re: – Non certo io sono migliore di Abramo, ma è la purezza dei celibi ad esser migliore di quella degli sposati; tuttavia di queste due forme di purezza Abramo aveva una in uso ed entrambe in abito. Della purezza dei celibi Abramo non mancava, anche se apparen­temente non sembrava.

Per Agostino, si tratta solo di una eccezione, perché [cf 17.19 e 19.22] i patriarchi ve­­te­­ro­testamentari erano di molto superiori agli attuali continenti e neppure paragonabili agli attuali coniugati; ma così si apre comunque uno spiraglio: è dunque teologi­camente pos­sibile essere sposati di fatto, e però spiritual­mente celibi e sposi insieme; ma (ci chiediamo), se questo è stato possibile ai patriarchi, il cui matrimonio era solo naturale, perché non può essere possibile ai figli della Nuova Alleanza, il cui matrimonio è un sacramento di Cristo?

Inoltre, se Agostino e tutta la tradizione che si richiama a lui hanno tenuto in minore con­siderazione il matrimonio rispetto al celibato, questo è forse in buona parte imputabile ad una par­ticolare dottrina, secondo cui nel progetto creativo originario di Dio (e quindi nello stato di innocenza) l’uomo e la donna si sarebbero accoppiati solo per la riproduzione e senza provare alcun piacere o desiderio sessuale, così come ad esempio si porta la mano alla bocca; tale piacere per la sua veemenza sarebbe infatti disordinato ed introdotto a causa del peccato originale (anzi, sarebbe da iden­tificare con la concupiscen­za) [7]; pertanto gli uomini nascereb­bero nel peccato originale proprio in quanto concepiti mediante la corruzione del piacere ses­suale [8].

Questo spiega la concezione del matrimonio non solo come “ufficio” (per la generazione della prole) e come “sacrame­nto” (dell’a­more di Cristo per la Chiesa), ma anche come “rimedio” (contro il pericolo dell’incon­tinenza): rimedio tuttavia meno per­fetto della continenza celibataria e che comunque Agostino auspicava si evitasse (au­spi­cando cioè un’umanità di vergini, che avrebbe compiuto il numero degli eletti meglio e prima che se avesse continuato a procreare). Di conseguenza, anche se ci sono pure alcuni coniugati che si dedicano alle cose del Signore, “tuttavia sono più che rari, né si sono sposati per dedicarsi a Dio, ma [solo] dopo sposati si sono dedicati a lui” [9]; il che ha condizionato storicamente non solo l’esclu­sio­ne degli sposi dalla vita che noi chiamiamo consacrata (come abbiamo già visto), ma anche (come vedremo) la pratica delle canonizzazioni e beatificazioni nella Chiesa fino a pochi anni fa.

Ebbene, questa teoria del piacere, pur avendo una sua parte di verità, non è però esatta; e comunque non solo la dottrina teologica (soprattu­tto con Francesco di Sa­les, e ormai comunemente oggi) ma lo stesso magistero recente (soprattutto da Pio XII in poi) l’hanno definitiva­mente abbandonata, o meglio corretta. Infatti Dio stes­so ha previsto nel suo atto creativo il desiderio e il piacere sessuale, e non solo in vi­sta della procreazione, ma anche dell’armo­nia della coppia; tuttavia il peccato ha cor­­rot­to questo sano desiderio con la concu­piscenza, dalla quale bisogna perciò guar­dar­si e continuamente purificarsi.

Certamente, ci si può sposare per concupiscenza (e in tal caso il matrimonio è un rimedio contro il pericolo del peccato: non per nulla Paolo nella prima lettera ai Corinzi [7,8] diceva che “è meglio sposarsi che ardere”); ma è chiaro che non è questo l’ideale e che è non solo è possibile, ma soprattutto è preferibile sposarsi per vocazione. Se i coniugi non si impegnano a purificare il loro amore (e l’atto coniugale stesso) dalla concupiscen­za, il loro stato di vita scelto come rimedio al peccato sarà inevitabil­mente non solo un bene minore rispetto al celibato scelto per il Regno dei Cieli, ma anche una condizione in cui il cuore è almeno in parte diviso da Dio.

In ogni caso, qualora la minor valutazione del matrimonio rispetto al celibato dipendesse effettivamente da quelle dottrine inesatte sull’unione coniugale, allora, venute oggi a cadere queste premesse, non dovrebbe essere rimessa in discussione anche la conclu­sione?

A nulla varrebbe il tentativo di qualcuno di fondare la minor valutazione del matrimo­nio sul­l’im­pegno affettivo che comporta: nessuno si è mai permesso infatti di contestare questo a Maria e Giuseppe. Eppure, dovrebbe far riflettere questo: Maria, che al momento dell’annun­cia­zione è divenuta il prototipo di tutti i consacrati, a norma del diritto canonico[10] non sarebbe stata accettata in nessun istituto di vita consacrata, perdurante il suo matrimonio con Giuseppe…

·      In Francesco di Sales ed altri autori moderni

La terza tappa nel nostro itinerario attraverso la tradizione, è neces­sariamente la dottrina di Francesco di Sales, in cui non solo ritroviamo quella visione estrema­­mente positiva del matrimonio (e della vita comune e secolare) che abbiamo riscontrato nei primi Padri, ma troviamo anche gli elementi dottrinali per superare la concezione non del tutto corretta prima delineata. Il Sales scrisse per i cristiani comuni l’Introdu­zione alla vita devota o Filotea. La devo­zione non è semplicemente la virtù, come la carità, ma una particolare facilità ed intensità della carità. Se la carità è un fuoco, la devozione è una fiammata (dice il santo al principio della prima parte) che ci porta ad intraprendere “tutte le opere buone che ci sono possibili, anche se non comandate, ma soltanto consigliate”.

Insomma, la devozione fa sì che tutta la nostra vita sia de‑vo­ta, votata a Dio, cioè (diremmo noi) una vita con­sacrata. Francesco di Sales dice che la vita devota (lodevolmente arricchita da voti personali o privati) si può avere in tutti gli stati, anche nel matrimo­nio, e comporta un sacro vincolo e una consacrazione.

Anche se infatti “la sola carità ci mette nella perfezione”, obbedienza castità e povertà sono i tre gran mezzi per acquistarla: “l’obbedienza consacra [«consacre»] il nostro cuore, la castità il nostro corpo e la povertà i nostri mezzi all’amore e al servizio di Dio” (in realtà sono i tre voti che si applicano diversamente; le rispettive virtù interessano tutta la persona, nel corpo e nello spirito); inoltre, la singola persona è invitata a prendere una volta per tutte l’impegno della devozione, con una “promessa e consacrazione” [«resolution et consecration»], ossia “dedicando e consacrando” [«dediant et consecrant»] “il suo spirito con tutte le sue facoltà, la sua anima con tutte le sue potenze, il suo cuore con tutte le sue affezioni, il suo corpo con tutti i suoi sensi, in totale sacrificio e immolazione a Dio” [11].

Nella Filotea, troviamo [ai capitoli 3.12-13] innanzitutto una tratta­zione della casti­tà in generale, e solo molto più in là [nei capitoli 3.38-41] una trattazione delle mo­dalità per viverla nei diversi stati di vita: così, accanto alla una castità verginale, si tratta anche della castità sponsale (come pure di quella vedovile e di quella giovanile o in ricerca) vissute devota­mente, cioè tendendo alla perfezione. Ebbene, la castità sponsale (che comporta l’astinenza periodica e la moderazione) è sì più dif­fi­­­cile di quella celibataria (che comporta l’astinenza perpetua), ma non impossibile, “co­sì come il precetto Adiratevi e non peccate è più difficile da osservare che non quel­lo di non adirarsi affatto” [3.12]. Francesco di Sales in questo riprende l’afferma­zio­­ne paolina, secondo cui gli sposi “avranno tribola­zioni” [1Cor 7,28]; queste, del resto, sono (per chi è chiamato al matrimonio) prove e croci non da sfuggire ma da affron­tare per il bene superiore della Chiesa, come nel caso dei santi re medioevali.

L’enfasi sul valore consacratorio dell’impegno battesimale è presente in vari autori moderni. Juan de Valdès, in una pagina pienamente cattolica all’inizio del suo Dialogo della dottrina cristiana del 1529, fa dire ad uno dei personaggi che “i voti dei religiosi hanno il solo scopo di disporli meglio ad osservare […] il voto battesimale” (inteso giustamente al singolare), “che è il principale, e senza il quale nemmeno possiamo dirci cristiani”. In tutt’altro contesto, nel 1712 San Luigi de Montfort, nel suo Trattato della vera devozione alla Vergine Maria [3.1] fonderà ogni devozione e consacrazione sui “voti bat­tesimali”, che (secondo la dottrina di Agostino) fra tutti i voti sono i più grandi e sacri.

Anche nella spiritualità giansenistica tra Settecento e Ottocento, il rinnovo dei voti battesimali era valorizzato come consacrazione [12]; ma con la tendenza a svalutare invece ogni forma di ulteriore e speciale consacrazione religiosa e a propugnare un certo riduzionismo battesimale, come nelle regole del sinodo di Pistoia (convocato nel 1786 da Scipione de’ Ricci) poi condannate da papa Pio VI nel 1794.

·      Nel Concilio Vaticano II e nel successivo Codice di Diritto Canonico

Sorvolando sugli ulteriori sviluppi della tradizione, possiamo finalmente giungere ai nostri tempi e considerare l’atteggiamento del magistero a partire dal Concilio Vaticano II.

Per il Concilio la famiglia cristiana è una “Chiesa domestica” [Lumen Gentium, 11d], in cui i coniugi esercitano il loro sacerdozio non solo in virtù del battesimo, ma anche del sacramento del matrimonio, da cui “sono quasi consacrati” [Gaudium et Spes (GS), 48d]: per questo gli sposi “sono ripetutamente invitati dalla Parola di Dio” (e quindi per consiglio, non per precetto) a nutrire la loro unione “con un affetto non diviso” [GS 49a, cf 1Cor 7,3-6]; ed un tale amore, corroborato dalla grazia e dalla carità, “diventa sempre più perfetto”; ma “per far fede agli impegni di tale vocazione cristiana si richiede una virtù fuori del comune” [GS 49b e 49d].

Da questa considerazione sulla famiglia emerge, secondo il Codice di Diritto Canonico del 1983 (nella cui elaborazione ha comunque influito anche il magistero papale successivo al Concilio, di cui parleremo tra poco), l’e­si­genza che “lo stato matrimoniale […] progredisca in perfezione […], affinché gli sposi […] giungano a con­durre una vita di giorno in giorno più santa e più piena in famiglia [13].

Anche se né il Concilio né il Codice ammettono una “consacrazione in famiglia” (analoga a quella “nel mondo” degli istituti secolari), tuttavia e­spres­sioni come “vita più piena in famiglia”, mediante un “affetto non diviso”, sembrano suggerire che la “quasi consacrazione” sacramentale del matrimonio possa essere portata a pieno compimento da una consacrazione totale del singolo sposo (in quanto cristiano). Inoltre, se i coniugi eser­citano il sacerdozio sponsale nella loro Chiesa domestica, in analogia a come il vescovo esercita il pieno sacer­­dozio gerarchico nella sua Chiesa particolare (e per questo tanto i coniugi quanto i vescovi portano l’a­nello, segno di fedeltà), ebbene, la loro dedizione alla famiglia può essere vissuta come una vera sollecitudine pa­sto­rale, in piena dedizione a Dio.

·      Nel magistero papale successivo al Concilio Vaticano II

Paolo VI nella Humanae Vitae (e in numerosi suoi discorsi) ha fornito indicazioni utilissime per una spiritualità matrimoniale veramente evangelica: non a caso le nuove comunità con sposati hanno perlopiù letto in questa enciclica non certo un deprez­zamento del matrimonio, ma una via per poterlo vivere con intensità evange­lica analoga a quella della voca­zione celibataria. Infatti, per chi non si ferma al precetto minimale che vieta la contraccezione, ma vuole accogliere interamente lo spirito della paternità e maternità responsabili con il consiglio dell’asti­nenza periodica, si aprono nuovi orizzonti spirituali: amare Dio con tutto il cuore e tutta la propria famiglia in Dio, purificando dalla concupiscen­za l’atto sessuale.

Giovanni Paolo II stesso ha col suo magistero aperto nuove prospettive alla questione. Nella Familiaris Consortio [35], citando Paolo VI, ha detto che

una preziosa testimonianza può e deve essere data da quegli sposi che mediante l’impegno comune della con­tinenza periodica, sono giunti a una più matura responsabilità personale davanti all’amore e alla vita: […] ad essi il Signore affida il compito di rendere visibile tra gli uomini la santità e la soavità della legge che unisce l’amore vicendevole degli sposi con la loro cooperazione all’amore di Dio autore della vita umana.

In altre parole, il papa affida agli sposi che si impegnano all’asti­nenza periodica (la quale di per sé non è per precetto ma per con­siglio) il compito di educare tutti gli sposi ad accettare la paternità e mater­nità responsabile secondo i dettami della Hu­ma­nae Vitae (che è per precetto). Ancor più e­spli­cita­mente nell’udienza generale del 14 aprile del 1982 a proposito di Matrimonio e continenza: loro complementarità [3], il papa ha detto:

Non vi è alcuna base per una supposta contrapposizione, secondo cui i celibi o le nubili solo a mo­tivo della continenza cos­titui­rebbero la classe dei perfetti e, al contrario, le persone sposate costitui­reb­be­ro la classe dei non perfetti o dei meno perfetti. Se, stando a una certa tradizione teologica, si parla dello stato di perfezione, lo si fa non a motivo della continenza stessa, ma riguardo all’insieme della vita fondata sui consigli evangelici (povertà, castità e obbedienza), poiché questa vita corrisponde alla chiamata di Cristo alla perfezione (Se vuoi essere perfetto…). La perfezione della vita cristiana, invece, viene misurata col metro della carità.

 

Insomma, per il papa la perfezione è nella carità (che si può realizzare pienamente in ogni condizione) e lo stato di perfezione consiste nella pratica dei consigli evangelici, che non si identificano automatica­mente con il celibato.

Nella Christifideles Laici [56] il papa riprendeva infine un testo del Sales per sostenere la possibilità di altre forme (oltre a quelle finora canonicamente riconos­ciute) di offerta di se stessi secondo la per­fezione evangelica in tutte le condizioni della vita secolare.

Nella Vita consecrata [62] il papa, pur distinguendola dalla vita consacrata anche in nuove forme [14], elogiava la vita di quei coniugi che abbracciano una vita evangelica, mediante i consigli (assunti secondo il proprio stato) di povertà, castità e obbedienza:

In forza dello stesso principio di discernimento, non possono essere comprese nella specifica categoria della vita consacrata quelle pur lodevoli forme di impegno che alcuni coniugi cristiani assumono in associazioni o movimenti ecclesiali, quando, nell’intento di portare alla perfezione della carità il loro amore, già “come consacrato” nel sacramento del matrimonio, confermano con un voto il dovere della castità propria della vita coniugale e, senza trascurare i loro doveri verso i figli, professano la povertà e l’obbedienza. La precisazione doverosa circa la natura di tale esperienza non intende sottovalutare questo particolare cammino di santificazione, a cui non è certo estranea l’azione dello Spirito Santo, infinitamente ricco nei suoi doni e nelle sue ispirazioni. Di fronte a tanta ricchezza di doni e di impulsi innovativi, sembra opportuno creare una Commissione per le questioni riguardanti le nuove forme di vita consacrata, allo scopo di stabilire criteri di autenticità, che siano di aiuto nel discernimento e nelle decisioni. Tra gli altri compiti, tale Commissione dovrà valutare, alla luce dell’esperienza di questi ultimi decenni, quali nuove forme di consacrazione l’autorità ecclesiastica possa, con prudenza pastorale e a comune vantaggio, riconoscere ufficialmente e proporre ai fedeli desiderosi di una vita cristiana più perfetta. Queste nuove associazioni di vita evangelica non sono alternative alle precedenti istituzioni, le quali continuano ad occupare il posto insigne che la tradizione ha loro assegnato. Le nuove forme sono anch’esse un dono dello Spirito, perché la Chiesa segua il suo Signore in perenne slancio di generosità, attenta agli appelli di Dio che si rivelano mediante i segni dei tempi. Così essa si presenta al mondo variegata nelle forme di santità e di servizi, quale “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” [15].


[1] CIC can. 1191; cf Tommaso, Sum­ma Theologiae, II‑II, 88.2.

[2] Testo riportato in Charles Munier, Mariage et virginité dans l’église ancienne (Ier–IIIe siècles), Bern, Lang; trad. it. di Giovanni Ramella, Matrimonio e verginità nella Chiesa antica, SEI, Torino 1990, n. 23, p. 22-23 (si tratta di una raccolta organica, in originale e in traduzione, delle principali affermazioni in materia dei padri preniceni).

[3] Ibid., n. 104, p. 134-135. Il filosofo pitagorico Sesto, pur non essendo un Padre della Chiesa, tale fu però considerato dai posteri, e in particolare da Rufino che ne tradusse in latino le sentenze (probabilmente già nel testo greco ritoccate da un cristiano).

[4] Il testo è quello della versione (latina) di Rufino che ne è rimasta; cf Origene, Commento alla Lettera ai Romani, a cura di Francesca Cocchini, vol. 2, Marietti, Torino 1986, p. 93.

[5] Testo riportato in Munier, Matrimonio…, cit., n. 145, p. 192-193. Poco prima [al framento 34] Origene aveva detto che «dal matrimonio spira un carisma, che nasce dall’accordo, quando la misura è rispettata» [ibid., n. 139, p. 186-187].

[6] Cf De bono coniugali, 22.27: «Ac per hoc ab eis, qui corrumpunt bonos mores colloquiis malis, inani et vana versutia dicitur homini christiano continenti et nuptias recusanti: Tu ergo melior quam Abraham? Quod ille cum audierit, non perturbetur nec audeat dicere: Melior, nec a proposito delabatur (illud enim non vere dicit, hoc non recte facit), sed dicat: Ego quidem non sum melior quam Abraham, sed melior est castitas celibum quam castitas nuptiarum: quarum Abraham unam habebat in usu, ambas in habitu». Il testo agostiniano è ripreso da Bonaventura nelle Questioni sulla perfezione evan­gelica, 3.3 ad 1, da cui citiamo, perché più conciso. Anche Tom­maso cita il testo agostiniano nella Summa II‑II, 186.4 ad 2.

[7] Cf Agostino, De civitate Dei, 14.23-26; Bonaventura, In Sententiarum libros, 2.20.1.3; Tommaso, Summa Theologiae, I, 98.2.

[8] Cf Bonaventura, Breviloquium, 3.6 (che riprende una idea anselmiana).

[9] Sempre secondo Agostino, De bono coniugali, 12.14.

[10] Cf can. 643, § 1, 2°; 721, § 1, 3°.

[11] Oeuvres de Saint François de Sales, vol. 3 [Filotea o Introduzione alla vita devota], Annecy 1893; in particolare, capitolo 11 della terza parte [p. 172] e capitolo 20 della prima parte [a p. 60]. Come è noto la Filotea è scritta per persone comuni che vivono nel mondo, e soprattutto nel matrimonio.

[12] Cf Paolo Fontana, Le pratiche di pietà nella spiritualità di Eustachio Degola (1761-1826), in Ricerche Teologiche 1997 (8), p. 316-320.

[13] CIC can. 1063. Si noti l’analogia, sicuramente invo­lontaria, con il can. 710, in cui dei mem­bri degli istituti secolari si dice che “vivendo nel secolo, tendono alla perfezione della carità”.

[14] Il paragrafo del testo inizia così: «Lo Spirito, che in tempi diversi ha suscitato numerose forme di vita consacrata, non cessa di assistere la Chiesa, sia alimentando negli Istituti già esistenti l’impegno del rinnovamento nella fedeltà al carisma originario, sia distribuendo nuovi carismi a uomini e donne del nostro tempo, perché diano vita a istituzioni rispondenti alle sfide di oggi. Segno di questo intervento divino sono le cosiddette nuove Fondazioni, con caratteri in qualche modo originali rispetto a quelle tradizionali. L’originalità delle nuove comunità consiste spesso nel fatto che si tratta di gruppi composti da uomini e donne, da chierici e laici, da coniugati e celibi, che seguono un particolare stile di vita, talvolta ispirato all’una o all’altra forma tradizionale o adattato alle esigenze della società di oggi. Anche il loro impegno di vita evangelica si esprime in forme diverse, mentre si manifesta, come orientamento generale, un’intensa aspirazione alla vita comunitaria, alla povertà e alla preghiera. Al governo partecipano chierici e laici, in base alle loro competenze, e il fine apostolico si apre alle istanze della nuova evangelizzazione. Se, da una parte, c’è da rallegrarsi di fronte all’azione dello Spirito, dall’altra è necessario procedere al discernimento dei carismi. Principio fondamentale, perché si possa parlare di vita consacrata, è che i tratti specifici delle nuove comunità e forme di vita risultino fondati sopra gli elementi essenziali, teologici e canonici, che sono propri della vita consacrata. Questo discernimento si rende necessario a livello sia locale che universale, allo scopo di prestare una comune obbedienza all’unico Spirito. Nelle diocesi, il Vescovo esamini la testimonianza di vita e l’ortodossia di fondatori e fondatrici di tali comunità, la loro spiritualità, la sensibilità ecclesiale nell’adempimento della loro missione, i metodi di formazione e i modi di incorporazione alla comunità; valuti con saggezza eventuali debolezze, attendendo con pazienza il riscontro dei frutti (cfr Mt 7,16), per poter riconoscere l’autenticità del carisma. In special modo a lui è chiesto di stabilire, alla luce di chiari criteri, l’idoneità di quanti in queste comunità domandano di accedere agli Ordini sacri» [traduzione ufficiale vaticana].

[15] Il paragrafo continua con un appello finale alla mutualità tra vecchie e nuove forme di vita: «Gli antichi Istituti, tra cui molti passati attraverso il vaglio di prove durissime, sostenute con fortezza lungo i secoli, possono arricchirsi entrando in dialogo e scambiando i doni con le fondazioni che vengono alla luce in questo nostro tempo. In tal modo il vigore delle varie istituzioni di vita consacrata, dalle più antiche alle più recenti, come pure la vivacità delle nuove comunità, alimenteranno la fedeltà allo Spirito Santo, che è principio di comunione e di perenne novità di vita».