Riepilogo e conclusioni

Conclusione: la questione se la vita di totale consacrazione a Dio degli sposati possa venir rico­no­sciuta come una nuova forma di vita consacrata è un problema pastorale e giuridico più che teo­lo­gico.

A conclusione di questo studio, possiamo dire che forse il problema non è tanto teologico, ma giuridico e pastorale.

·      Il problema giuridico

Dal punto di vista giuridico, mentre la Chiesa non riconosce (ancora?) la possibilità di una vita consacrata canonicamente intesa per chi non è celibe, d’altra parte, invece, intendendo per consacrazione l’impegno ad essere totalmente di Dio, è pro­babilmente chiaro che la possibilità di tale impegno è offerta a tutti.

Tradizionalmente la teologia risolveva così il problema: “la maggiore o minore perfezione si riferisce agli stati [religioso o secolare], e non alle persone, perché talvolta un laico è più perfetto di un religioso” [1]. Tale posizione oggi potrebbe essere rifor­mulata così: agli sposi è possibile un cammino di totale donazione a Dio (magari anche in una forma di vita stabile), ma non l’ingresso in uno stato di vita consacrata; ossia, sarebbe possibile una consacrazione teologica, ma non giuridica degli sposi. Questa soluzione (a cui si accennava anche agli inizi) è però inadeguata perché “una distinzione troppo netta tra teologia e diritto, verità rivelata e strutture ecclesiali, non può che nuocere alla vita della Chiesa e delle sue istituzioni” [2].

Il fatto stesso che nella Chiesa esistano numerose comunità di vita evangelica con presenza, a pari titolo, di celibi e spo­sati, ed approvate dalla Chiesa (sia pure come as­sociazioni di fedeli), vuol dire che l’idea teologica di una pari possibilità di donazione a Dio per i celibi e per gli sposi è conforme alla dottrina della Chiesa. Certo, non è cosa da poco che gli sposi vengano ricono­sciuti nei Lineamenta e nell’Instrumentum Laboris come possibili soggetti di una vita pienamente evangelica, anche se intesa in tono minore rispetto alla vita consacrata celibataria. Però, ci si dovrebbe interrogare se questa po­si­zione (tradizionale sì, ma non certo di tutta la tradizione cattolica, come abbiamo po­tuto notare) non sia da rivedere. In tal caso vanno previamente affrontati alcuni problemi.

Un primo problema è di carattere terminologico; in un contesto come quello della teologia e del diritto della vita consacrata, in cui la terminologia è (per lamentela quasi unanime) confusa e incongruente, neanche i nuovi termini (come “vita evangelica” e “consacrazione di vita”) ultimamente introdotti per indicare le nuove realtà sono esenti da ambiguità e inconvenienti, che sarebbe opportuno chiarire ed evitare [3].

Un secondo problema è invece di carattere dottrinale [4], e può essere espresso dalla seguente domanda: la consacrazione celi­ba­taria e quella sponsale sono fra loro sola­mente analoghe, e al massimo rien­tranti entram­be nell’unico genere di una vita evan­ge­li­camente ispirata; oppure la consacrazione celi­ba­taria e quella sponsale sono due specie della stessa consacrazione (che quindi ha per celibi e sposi un senso univoco di donazione a Dio, che poi si concretizza in due moda­lità diverse per gli uni e per gli altri)?

Tale problema ci rinvia al rapporto fra definizione di consacrazione e impegno di celibato; ebbene, ritornando all’esposizione dei canoni 573, 607 e 599 fatta nella premessa, i casi sono due: o il celibato è una conseguenza essenziale alla definizione di consacrazione, ma allora non si potrebbe dare impegno di totale santi­fi­ca­zione nel matri­monio, ma solo (eventualmente) il conseguimento per accidens della santità, il che va contro tutto quello che abbiamo mostrato finora; oppure il celibato non è una con­se­guenza essenziale alla definizione di consacrazione, ma è quindi la differenza specifica che caratterizza un tipo di consacrazione. In tal caso, allora, fermo re­stan­do che la vita consacrata tradizionale è caratterizzata dal celibato, non è impossibile una nuova forma di vita consacrata diversamente caratterizzata.

Il terzo problema è di congruenza dell’ordinamento giuridico. Il problema nasce dal fatto che (a differenza delle altre forme nuove manifestatesi nella storia) le nuove comunità sono eterogenee per composizione. Per questo la “nuova forma”, che le nuove comunità rappresentano e che la suprema autorità della Chiesa potrebbe prima o poi ade­gua­ta­mente configurare e regolamentare, non è caratterizzata dalla do­na­zione a Dio nel matrimonio, ma dalla compresenza spesso a pari titolo di celibi e sposi.

Così, in base alla legislazione vigente ci si trova di fronte a un paradosso: nelle co­munità di vita evangelica che ammettono la compresenza a pari titolo di celibi e spo­sa­ti, i membri celibi vivono una vita che da una parte è di fatto identica a quella dei membri di istituti di vita consacrata (secolari o religiosi); e dall’altra, pur nelle differenze e­ste­­riori, è spiritualmente identica e di diritto equivalente a quella dei membri sposati, e questo a norma degli statuti, spesso approvati dalla competente autorità della Chiesa; eb­bene, tali membri celibi non possono essere con­si­derati come canonicamente con­sa­crati, perché la loro comunità comprende a pari titolo anche gli sposati; non è opportuno però che chie­dano di essere approvati a parte (sepa­ratamente dagli sposati) come isti­tu­to seco­lare, perché questo “sarebbe come smem­brare un corpo” [Instru­mentum La­bo­ris, 37], in quanto la caratteristica di queste nuove comunità (sancita appunto dalla Chiesa) è proprio la compresenza a pari titolo di celibi e sposati: ma questo “pari titolo” non esi­ge­rebbe allora l’ammissione degli sposi nella vita consacrata? Ci troviamo in­som­ma di fron­te ad una incongruenza che va contro l’esigenza di coerenza dell’ordi­na­men­to canonico. Conclusione del discorso: anche se l’ammet­tere gli sposi alla vita consacrata porterebbe sicuramente un po’ di scompiglio nell’or­dinamento ecclesiale (tradizionale, ma non nel senso della Tradizione), tuttavia il continuare a non ammet­terveli suscita una serie di aporie e difficoltà forse non minori.

·      Il problema pastorale

A questo punto, è chiaro che non basta ragionare in termini giuridici, ma occorre vedere la questione dal punto di vista pastorale, cercando non solo di discernere i doni dello Spirito alla sua Chiesa, ma anche di valutare, con prudenza e onestà, alcuni rischi.

Un primo pericolo è quello di appiattire tutto. Quando il Concilio Vatica­no II dichiarò giustamente che la santità è la universale voca­zione di tutti i cristiani, l’effetto indesiderato a volte è stato che alcuni si sono sentiti già santi, senza dover far nulla. Similmente, se la Chiesa ammettesse che la consacrazione è possibile anche per gli sposati, questo non signi­ficherebbe che tutti gli sposati vivano già da con­sacrati. Allargare le basi della consacrazione anche agli sposati non vuol dire abbassare il livello della vita consacrata (magari per far numero), ma aumentare il “coro della lode” a Dio e favorire una maggiore intelligen­za della consacrazione stessa, a beneficio anche delle sue forme tradizionali (che non hanno perso nulla del loro valore originario) e per meglio valoriz­zare l’essenza più profonda della consacrazione.

Un secondo pericolo (particolarmente paventato da molti) è che estendendo la vita consacrata agli sposi, ne venga sminuito il celibato; ma l’esperienza prova il con­tra­rio: nelle nuove comunità che ammettono la consacrazione de­gli sposati continuano a fio­rire le vocazioni celibatarie, nonostante la tendenza opposta che spesso si verifica al di fuori. Inoltre, la presenza nella Chiesa di una vocazione alla do­nazione a Dio anche nel matrimonio sarebbe certo benefica nella pa­­sto­rale voca­zio­nale, perché aiuterebbe a distinguere l’essenza della vocazione alla con­sacrazione dalla con­­di­­zione celibataria o matrimoniale, clericale o laicale, secolare o religiosa, attiva o con­­tem­plativa, individuale o comunitaria (in una comunità particolare) che la vocazione assume. Il celibato, poi, visto in maniera più precisa nel suo rapporto col matrimonio, potrebbe essere scelto più con­sape­vol­mente e per se stesso.

Il terzo rischio, dovuto alla novità, è che le nuove forme di vita evangelica per gli sposi possano rivelarsi non sempre adeguate nella pratica: pur ammetten­do in via teorica la possibilità di una vera donazione per gli sposati, bisogna perciò essere molto prudenti nel riconoscere quali debbano essere le modalità pratiche per realizzarla; in effetti oc­cor­re verificare quali comunità e forme di vita evan­gelica sorte in questi ultimi anni siano ef­fet­­ti­vamente nate da un’auten­tica ispirazione divina e siano in grado di durare nel tempo.

Pertanto la questione della consacrazione degli sposati non è solo teologica e giu­ri­dica, ma soprattutto spirituale ed esperienziale. Le nuove comunità di vita evangelica de­vono infatti riuscire a comunicare l’espe­rienza che vivono per dono di Dio e far toccare con mano che Dio sta suscitando in esse frutti di santità non solo episodici, ma in un certo modo sistematici: che cioè cresce in esse una santità popolare e che gli strumenti del loro cammino comunitario sono adeguati a stimolare tanto i celibi quanto gli sposi a ten­dere alla perfezione secondo il Vangelo. Allora la Chiesa sarà ben lieta di riconoscere che anche questo è un cammino di per­fezione (certo diverso dagli altri) donatole dallo Spirito.

Riepilogo e precisazioni: la consacrazione spirituale è l’impegno a vivere in pienezza il battesimo seguendo nella propria condizione i consigli evangelici in generale, ma con vincoli concretamente definiti [5].

La consacrazione di cui si è discusso è quella spirituale (nel senso di San Francesco di Sales) con cui uno si vota a Dio impegnandosi ad attuare in pienezza i voti battesimali e le potenzialità insite nella consacrazione battesimale e crismale. Dunque, tale consa­crazione spirituale non si identifica con quella battesimale, ma ne costituisce la risposta adeguata: in questo senso si può dire che coincidono, ma con due movimenti diversi: discendente (Dio consacra la persona) e ascendente (la persona si consacra a Dio).

Mentre la consacrazione battesimale e crismale fonda la vita cristiana in generale, invece la consacrazione spirituale fonda la vita evangelica (quella che San Francesco di Sales chiamava “vita devota” o “votata a Dio”); la vita evangelica non è altro che la vita cristiana, cercata in pienezza in una condizione stabile e “impegnata”.

A questo punto si capisce che la consacrazione battesimale è attuata dalla consa­crazione spirituale (che fonda la vita evangelica), la quale è ulteriormente speci­ficata dalla consacrazione celibataria (che fonda la “vita consacrata” tradizionale), che è ulte­rior­mente specificata dalla consacrazione o professione religiosa (che fonda la cosid­detta vita religiosa).

Lo schema (limitato come tutti gli schemi) di una possibile descrizione classificatoria delle forme di vita può essere questo: la vita religiosa è una specie della vita consacrata (così come è definita dal Codice di Diritto Canonico), la quale a sua volta è una specie della vita evangelica, la quale è a sua volta non una specie, ma una attuazione (o forse una parte potenziale, direbbero gli Scolastici) della vita cristiana.

In questo senso, la consacrazione spirituale non è una consacrazione “speciale”; e tuttavia è una consa­cra­zione distinta da quella battesimale perché impegna ad attuare tutte e al massimo (nei limiti di ciascuno) le poten­zialità del battesimo. In altre parole: tutti i cristiani sono esortati ad una vita di preghiera o di povertà o di testimonianza; ma non tutti sono impegnati (e quindi tenuti) a realizzarla così.

Insomma: la consacrazione spirituale è l’impegno a vivere in pienezza il battesimo seguendo nella propria condizione i consigli evangelici in generale, ma con vincoli concretamente definiti; la consacrazione che fonda la vita consacrata in senso canonico è la consacrazione spirituale più l’impegno celibatario in un contesto canonico definito; infine la consa­cra­zione religiosa è la consacrazione celibataria più l’impegno a manifestarla pubblica­men­te nella convivenza “separata” dal mondo.

La consacrazione spirituale in tale senso è radicata nella tradizione ascetica e mistica; e spesso anche quando si parla di consacrazione celibataria si assumono in realtà i contenuti più generali di quella consacrazione più generale.

Invece, la “vita evangelica” non si identifica con la vita ma­tri­moniale per due motivi, cioè dalla parte della vita evangelica e dalla parte della vita matrimoniale. Innanzitutto dalla parte della vita evangelica: infatti “vita evangelica” è il genere a cui va ricondotta anche la vita religiosa e consacrata tradizionale e perché nemmeno le “nuove forme” di vita evan­gelica (quelle cioè che ammettono al loro interno gli sposati) possono essere identificate come forme simpliciter matrimoniali, né queste ultime possono essere identificate con quelle che prevedono la vita evangelica di entrambi i coniugi, mentre (sulla base del concetto di consacrazione spirituale e soprattutto dell’esperienza) è possibile che uno solo dei coniugi si consacri (fatti salvi i diritti dell’altro).

Le nuove forme di vita evangelica inoltre sono spesso aperte tanto al matrimonio quanto al celibato. Anzi, mentre in alcune comunità l’assun­zione degli impegni evangelici (o consacrazione) fissa anche lo stato di vita (ossia: chi al momento non è sposato, assume lo stato celibatario), invece in altre la consa­crazione è giuridicamente e spesso anche cronolo­gi­camente distinta dall’assun­zione dello stato di vita (ossia: chi al momento della consacrazione non è sposato, può formulare una consacrazione “aperta”, rimandando a dopo la scelta dello stato di vita).

Il secondo motivo per cui non si può identificare vita evangelica e vita matri­mo­niale viene proprio dalla natura della vita matrimoniale. Il matrimonio (in quanto sacra­mento) opera una consacrazione discendente dei coniugi in Chiesa domestica e in profeti, re e sacerdoti della vita familiare. Viceversa la consacrazione spirituale è una consa­cra­zione ascendente. Si tratta più o meno della stessa situazione di coloro che sono consa­crati per l’ordinazione: il fatto di essere stati consacrati non impedisce loro di con­sacrarsi in un istituto religioso o secolare o in forma privata…

Inoltre, le nuove comunità si caratterizzano proprio per la “com­pre­senza” (spesso paritetica) non solo tra celibi e sposi (e vedovi e “in ricerca”), ma anche tra laici e chierici, o addirittura tra “secolari” e “religiosi”: la loro spiritualità risale quindi “a monte” di tali distinzioni carismatiche e ministeriali, e tuttavia non si identifica con quella battesimale (tale identificazione anzi è pericolosa: per tale confusione, molti movimenti tendono a identificare la vita cristiana con la propria spiritualità). Possiamo però dire che nella consacrazione evangelica la consacrazione battesimale si arricchisce dal di dentro (come pensare o vivere sono gradi più intensi di essere, ma non sono al di fuori dell’essere).

Quanto al tema dell’astinenza periodica, è un punto molto delicato: ogni coppia di sposi – illuminata da criteri comuni – deve discernere da sé. La coppia che avesse già raggiunto la piena fecondità genitoriale e spirituale può anche decidere, mossa dallo Spirito, di praticare l’astinenza perpetua, senza per questo sentirsi superiore ad altre coppie per cui il rapporto co­­niugale, vissuto santamente, è necessario per cementare l’intesa reciproca.

A questo punto possiamo ricapitolare la risposta ad alcune obiezioni più generali che vengono mosse a questa impostazione del discorso.

“Tutto è sacro”.

Ontologicamente, ma non religiosamente.

“Tutti i battezzati sono già consacrati”.

Tutti i battezzati sono anche sacerdoti, ma non per questo tutti consacrano l’eucaristia. Ci sono infatti differenze non solo di grado ma anche di essenza. Similmente per la consacrazione: tutti i battezzati sono consacrati, ma alcuni lo sono a maggiore e nuovo titolo e con una particolare funzione ministeriale. La ministerialità propria dei consacrati a tale nuovo titolo è una peculiare profezia della vita eterna, una peculiare regalità ascetica, un peculiare sacerdozio o culto a Dio.

“I consacrati sono quanti seguono il carisma e la regola di un fondatore”, ovvero “quanti praticano il celibato in comunità”.

Ma esiste la forma di consacrazione individuale. Questa identificazione dei consacrati con i Religiosi (in opposizione ai Chierici diocesani e ai Laici) riflette una Chiesa ancora che non ha digerito la novità degli Istituti Secolari; la loro scarsa rilevanza numerica però non pregiudica la loro fondamentale importanza teologica (come nel caso delle Chiese orientali rispetto alla Latina).

“Se tutti possono consacrarsi, allora a che pro una forma canonica di vita consacrata?”.

La forma canonica serve a stabilire gli strumenti proposti come adeguati a conseguire la consacrazione.

“La consacrazione come impegno di santità non ha più senso una volta chiarito il principio della universale vocazione alla santità”.

La consacrazione spirituale comporta non solo l’impegno di rinunciare al peccato o di tendere alla perfezione cristiana in genere, ma anche di scegliere un concreto sistema di mezzi per realizzarlo in specie. Inoltre, la consacrazione in senso ministeriale ha, come si è detto, una funzione di particolare sacerdozio, profezia e regalità all’interno della Chiesa e della singola comunità.

 


[1] Bonaventura, In Hexaëmeron, 22.23.

[2] Cf Beyer, Renouveau…, cit., p. 147.

[3] I Lineamenta [24] hanno introdotto il sintagma “vita evangelica” di cui le nuove comunità sarebbero “nuove forme”. Innanzitutto non si capisce se la “vita evangelica” sia il genere sommo che ingloba tanto la vita consacrata nelle sue diverse forme canoniche quanto le nuove forme delle nuove comunità; oppure se per “vita evangelica” si debba intendere solo la specie di tali nuove comunità, accanto alla vita consacrata: ma allora occorre definire il genere a cui ricondurre entrambe.

Siccome poi le parole hanno la loro importanza, sarebbe addirittura meglio adoperare per tutti coloro che desiderano vivere i consigli evangelici (celibi o sposi che siano) il termine “con­sacra­zione” (inteso nel senso teologico finora delineato e salve restando le differenze con la vita consacrata tradizionale), in quanto ha radici più bibliche e ha il vantaggio di riconnettere più chiaramente ogni ulteriore santificazione alla fon­damentale consacrazione battesimale e crismale. Viceversa, l’espres­sione “vita evangelica” non sembra (in questo senso) suf­ficien­­temente radicata nella Scrittura, e si presta all’in­con­ve­nien­te di far sembrare che solo chi assume determinati impegni viva secondo il Vangelo.

L’Instrumentum Laboris [38] fa un passo avanti, introducendo la distinzione fra «vita consacrata» (secondo le forme canonicamente istituite) e «consacra­zione di vita» (che può trovarsi anche fuori di queste forme), tenendo conto che «[dal] punto di vista spirituale “consacrazione di vita” e “vita consacrata” […] non differiscono […, mentre] una differenza sostanziale si pone dal punto di vista […] istituzionale» [Ghirlanda, Punti…, cit., p. 168]. Ma la terminologia, pur essendo comprensibile, è un po’ artificiosa (per la convertibilità di attivo e passivo, è evidente che se uno consacra la sua vita a Dio, la sua è una vita consacrata); forse sarebbe meglio parlare di “forme non canoniche di vita consacrata” (nel cui ambito possono sorgere ed essere approvati come associazioni comunità o gruppi di vita consacrata) e “forme canoniche di vita consacrata” (nel cui solo ambito si possono erigere istituti di vita consacrata). Non è poi chiaro se la vita evangelica degli sposi rientri in queste «altre forme di consacrazione di vita», ma sembrerebbe di no, perché di essa si parla alla fine del paragrafo come «forma stabile di vita, secondo i consigli evangelici, da parte dei coniugi», di cui si chiede se sia giunto il momento «per un riconoscimento specifico da parte della Chiesa». Sarebbe forse meglio in futuro parlare non di “coniugi” (il che potrebbe generare il malinteso che tale vita riguardi solo le coppie), ma di “coniugati” (anche singolarmente presi).

[4] L’approvazione di nuove forme di vita consacrata è sempre un atto di profondo valore dottrinale, e per questo è riservato alla Sede Apostolica. Il can. 605 dispone che le nuove realtà che aspirino a venire approvate co­me nuove forme di vita consacrata utilizzino nei loro statuti «so­prattutto [«praesertim»] le norme generali con­te­nute in questa parte» del Codice. Alcuni (interpretando in senso forte questo “soprattutto”) ritengono che la vita evangelica degli sposi non possa mai venire approvata come nuova forma di vita con­sa­crata, ma tut­t’al più come una forma stabile di vita a sé stante, in quanto fra queste norme generali c’è appunto il can. 599, che richiede ai consacrati l’impegno del celibato. In realtà nel can. 605 l’intenzione del Legislatore è di di­verso segno: ossia rovesciare il pernicioso principio secondo cui quod non est in Codice non est in Ec­cle­sia, ed evitare così per l’avvenire le penose vicende di chiusura che tale principio aveva causato in passato. In questo spirito il can. 605 non dice quali siano le norme irrinunciabili a cui anche le future for­me di vita con­sacrata dovranno sottostare: è evidente però che se si imponessero tutte o quasi le norme gene­­rali ad ogni nuova realtà, essa nascerebbe già vecchia; ed è ragionevole che gli elementi irrinunciabili della vita consacrata siano da determinare in sede non solo giuridica, ma anche e soprattutto teologica. Pertanto, il «praesertim» menzionato dal canone potrebbe essere inteso in senso debole, così: le nuove realtà do­vranno ispi­rarsi nei loro statuti soprattutto, e cioè né integralmente né esclusivamente, alle norme generali, ferma re­stan­do la prioritaria opera di discer­ni­mento spirituale che il medesimo canone affida non ai canonisti, ma ai vescovi diocesani.

[5] In queste precisazioni, si prova a tener conto delle significative osservazioni di Damiano Marzotto e delle posizioni importanti di Cettina Militello e di Enzo Bianchi.