“Non temere: io sono con te” (1993)

Prepariamoci alla festa del Gruppo.

In questa preparazione per la festa della nostra comunità ho ritenuto utile tener conto della situazione comune del nostro vivere la vocazione alla luce dei temi meditati nei mesi scorsi, nei quali dominava l’essere mistici e la città sul monte come luogo e come modo per costruire in noi il regno di Dio e arrivare alla Gerusalemme celeste.

Dire che la festa del Gruppo è poco sentita sarebbe affermare un falso; infatti essa suscita in noi ogni anno sentimenti di riflessione, di attesa, di riconversione e di gioia. Per grazia di Dio in quel giorno si riescono a recepire profondamente il valore del dono ricevuto e l’impegno che ci viene richiesto nella via della santità, constatando com’è bello vivere insieme.

Anche quando la festa viene fatta in giorni e luoghi diversi e ci si trova presenti in numero ridotto, è vero che si sente presente tutta la comunità che vive la stessa vocazione.

L’emissione dei voti richiede il desiderio e la volontà di donarci totalmente a Dio. La parola “totalmente” richiama la parola “con­sa­cra­­zione”, cioè il donarci, consegnarci, lasciarci costruire dal Signore senza opporre volutamente degli ostacoli; non avere paura di Dio e di quello che ci chiede di essere e di fare per il nostro bene. La nostra attenzione deve sempre cercare di capire quello che lui vuole da noi, per il nostro bene definitivo.

Riconfrontiamoci con la mistica.

Se al cristiano comune e fedele è richiesto di essere sempre pronto a seguire Cristo presente nella sua storia, questa realtà non può essere da meno in noi, chiamati esplicitamente ad una adesione totale a Dio.

Abbiamo compreso che il cristiano per aver ricevuto i sacramenti del battesimo e della confermazione potenzialmente è un mistico: il mistico comune, quindi, è un cristiano fedele al Vangelo nell’uso dei propri talenti e dei personali carismi.

Tralascio di parlare della mistica infusa che non è detto non possa essere donata a qualcuno; restiamo invece nell’ambito dei mistici comuni, discepoli di Cristo. Il cristiano, se tale vuole essere, non può non lasciarsi afferrare dal Signore, lasciarsi condurre al suo seguito, essere un fedele in continua conversione.

Seguire Gesù diventa difficile quando non si seguono i suoi consigli, quando la sua Parola non viene bene assimilata e fatta diventare la nostra parola. Il comportamento del cristiano richiede che egli si alimenti della Sacra Scrittura, dei sacramenti, della presenza reale del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Alimentiamoci della Sacra Scrittura.

L’insegnamento di Dio in Cristo Gesù diventa per noi motivo per vedere la Parola incarnata e quindi vedere con maggior facilità e chiarezza la via di santificazione da seguire. Il comportamento di Cristo, figlio di Dio, e il suo insegnamento, quale unico Maestro, devono ispirare tutto il nostro essere e agire.

Il Vangelo è il libro di Gesù Cristo vero Dio e vero uomo: è la sua persona viva che ci apre alla conoscenza della verità tutta intera. Con la sua incarnazione ci insegna a vivere nel mondo senza essere del mondo e ci richiama alle realtà trascendenti definitive.

La vita in questo mondo e la vita prossima‑futura in Paradiso sono una cosa sola. Non si deve pensare adesso per qui e soltanto dopo per l’aldilà, ma realizzare qui tutti gli impegni nel mondo per il bene comune in previsione e come inizio della vita prossima‑futura. Non un adesso e un poi, ma un presente che abbraccia tutto il tempo dei giorni, dei secoli e anche quello che non ha bisogno di essere contato perché è senza numeri, senza orologio, senza ombre solari.

Soltanto se restiamo in Dio e riconosciamo che lui è sempre un aldilà, un oltre, una luce buia, saremo in grado di leggere con chiarezza il vangelo e viverne i contenuti. Leggere il vangelo senza viverlo significherebbe volerlo annullare, anche se questo fatto non potrà mai avvenire perché Gesù uomo e Dio è e sarà sempre vivo.

Se la Sacra Scrittura è vivente in Dio ed è storia passata, presente e futura del suo popolo, è una realtà molto costante, attiva e palpitante. Se così è, ed è così, a noi viene il compito di vivere la realtà di Cristo nostro fratello Dio per essere dei viventi nello Spirito, cioè per essere santificati e quindi congiunti con la divinità.

La Parola deve stare e crescere in me per realizzare il motivo della mia esistenza: devo cercare di fare mia tutta la Parola, anche se so che costerà fatica a causa della mia debole natura e proprio per la mia natura creata non potrò mai fare totalmente mia la Parola.

È vero che quello che non riusciremo a fare noi lo può fare lo Spirito in noi, ma noi dobbiamo impegnarci a realizzare la vita evangelica con tutte le nostre deboli forze, perché lo Spirito possa divinizzarci il più possibile.

Se voglio realizzare il motivo della mia esistenza devo donarmi tutto senza opporre ostacoli, limiti e mie preferenze: devo sempre riconvertirmi, anche perché le mete raggiunte non sono mai le ultime, c’è sempre da riempire un ancora, un altro più. La Sacra Scrittura ci offre sempre qualche nuova realtà da scoprire, perché in essa è espresso il mistero di Dio, che è una luce che ci indica sempre qualche cosa nuova da fare o da migliorare.

Oltre a vari scopi secondari, tutti corrispondenti al piano divino, la nostra vita è fatta per lodare Dio Trinità: fare la volontà del Padre, seguire e imitare Gesù Cristo, lasciarsi santificare dallo Spirito Santo. Questo è il compendio della vita cristiana (mistica), scritta dalla mano di Dio nel testo sacro, nelle realtà invisibili e visibili, oltre che nel cuore dei suoi santi che la manifestano.

Queste realtà di fede hanno un lato spirituale che non si vede ed un altro spirituale‑corporeo che le manifesta. Ambedue fanno parte dell’u­ni­co manto che riempie il tempio [cf Is 6,1], cioè il cielo e la terra.

Costruiamo la Città sul monte vivendo le beatitudini.

Gesù Cristo è il compimento di ogni realtà, ma in lui siamo chiamati a compartecipare a tutto il progetto del regno. Le norme e il materiale per costruire il Regno sono nel Vangelo, per cui se vogliamo partecipare alla costruzione della Città sul monte dobbiamo usare l’amore che si ritrova nel Signore.

Varie volte e in modo più o meno chiaro ho detto che, a parte i fatti straordinari e le realtà storiche del tempo, nei contenuti del Vangelo devo trovare la mia storia personale.

Sappiamo che il Vangelo non si deve prendere alla lettera e per questo il custode della Scrittura è il Magistero ecclesiastico, ma tra l’e­qui­voco di una frase letta male e il pericolo dell’annacquamento si deve riconoscere e conservare l’autentico messaggio.

Per costruire la città di Dio e degli uomini ci si deve addentrare nella vita di Gesù. Arricchiti dal suo insegnamento e aiutati dallo Spirito Santo cerchiamo di controllare se siamo vigorosi operai della sua vigna, oppure manovalanza della cultura secolare.

Cristo si è incarnato per redimere gli uomini e servire il mondo fatto per loro. Con sé ha portato la pace agli uomini di buona volontà, i quali per essere in sintonia con lui devono essere in pace con Dio, con se stessi e con il prossimo.

La pace interiore ed esteriore che ci mette in comunione con il pros­simo è serena, gaia, confidenziale e, con le sue varie virtù, mi permette di tenere sempre i contatti con Dio.

La pace con il Signore sta nella disponibilità a lasciarsi afferrare e condurre nella sua dimora, che non è il nido dei passeri nè la tana delle volpi, ma un luogo ove, secondo le sue parole, Gesù non sa nemmeno dove posare il capo. Per raggiungerla occorre camminare per una via ripida e passare da una porta stretta.

Mi chiedo se sono sicuro e convinto che le scelte da me fatte sono in sintonia con la via di Gesù, oppure ne preferisco altre, personali e comode.

Nel discorso sulla montagna troviamo quelle beatitudini che con animo contemplativo leggiamo durante la liturgia della nostra festa.

La beatitudine sta nella presenza di Gesù e nel riconoscere la sua azione nelle beatitudini; per noi è bene esaminare come ci comportiamo per ottenere che quelle virtù facciano parte della nostra vita di santità. Questo esame non lo facciamo ora, ma vi invito a farlo con calma nei momenti che ognuno ritiene più proficui.

Ora invece cerchiamo di osservare come viviamo altre vicende della vita quotidiana, alla luce degli insegnamenti evangelici.

Esaminiamo in particolare lo stato della nostra pazienza.

Soffermiamoci sulla virtù della pazienza, che è una virtù molto grande, che ci permette di controllare l’ira e la superbia e può favorire i giudizi rendendoli più precisi e meno avventati. Con una coscienza esemplare cerchiamo di osservare se siamo sempre comprensivi, misericordiosi, caritatevoli.

Il Vangelo ci dice di non giudicare se non vogliamo essere giudicati, di amare i nemici, di lasciare l’offerta se sappiamo che uno è in collera con noi, ma, prima di consegnarla, di andare a riconciliarci ammettere che alle volte siamo incomprensivi, permalosi, poco generosi, insofferenti, negligenti, superficiali, egoisti? Il male non si genera all’esterno ma è dentro di noi ed esce mettendo in mostra la nostra situazione interiore. Osserviamo qual è lo spessore delle nostre virtù. Se uno ci calunnia e ci insulta ci viene in mente che anche Gesù ha subito tale affronto e che lui ci ha addirittura preceduti? Se siamo incompresi e derisi ci ricordiamo che anche Gesù è stato preso a sputi e vilipeso?

Il male che ci arriva dalle persone non deve provocare reazioni negative, ma favorire l’imitazione di Gesù. Se uno mi dà uno schiaffo devo porgere l’altra guancia, se uno è senza mantello gli dono metà del mio, se uno mi chiede di fare un miglio con lui ne farò due. Se sono servito male e per ultimo, se mi viene assegnato il posto peggiore, se uno attraversa la strada in modo da intralciare e mettere in difficoltà la mia guida, ho sempre la possibilità, anzi (come cristiano) il dovere gioioso, di imitare la misericordia e la pazienza di Cristo.

Il cristiano deve uscire dalla logica del mondo profano per riattestarsi sui valori evangelici che la polvere dei secoli sta ricoprendo. Perlopiù non si vive il Vangelo nudo e perciò i nostri comportamenti sono distanti e non corrispondono al messaggio del Maestro Gesù. Sarà bene osservare il nostro modo di comportarci e verificarlo alla luce del Vangelo: scopriremo facilmente la diversità che esiste tra Cristo e i cristiani. Continuando così, anziché rinvigorire il cristianesimo e diffonderlo in tutto il mondo lo vanificheremo dal suo interno.

Abbiamo bisogno di crescere anche nelle altre virtù.

Sappiamo che gli esempi non riescono mai ad esprimere in pienezza un pensiero, ma alle volte possono essere più efficaci di un trattato.

Desidero fare qualche esempio di virtù indispensabili per arricchire la santità.

Una persona della famiglia, un amico, un collega di lavoro, uno studente o un’altra persona ci insulta, borbotta, ci tratta male: facilmente ci mettiamo sulla difensiva e ci ribelliamo, vogliamo avere le spiegazioni inerenti a quel comportamento. Un buon cristiano, invece, per prima cosa deve ringraziare Dio per averlo messo nella condizione di suo figlio Gesù e con lui condividerne la sofferenza, poi deve avere uno sguardo di be­nevola misericordia per la persona che è incorsa in quella indelicatezza ed infine avere compassione, perché forse quella persona è sofferente ed il suo gesto può essere stato un’esplosione dovuta all’ultima goccia di difficoltà, angheria, stanchezza subita durante l’intero giorno.

Una persona ci risulta sempre egocentrica, permalosa, sfruttatrice, invadente… Sotto ci può essere un carattere naturale introverso che essa stessa, pur facendo molti sforzi, non riesce a controllare. Può essere stata educata male in un ambiente infelice e non rendersi conto di quanto possa dare fastidio. Il cristiano deve essere previdente, saggio e pensare queste cose ancor prima di giudicare e poi accettare di buon grado le difficoltà che gli procura quella persona che, essendo dispotica, avrà già da subire tanti affronti da chi non riesce ad accoglierla.

Anche le persone migliori hanno dei difetti, dei limiti e, alle volte, anche se più raramente perdono l’equilibrio e hanno degli scatti imprevisti che sono dovuti a moti primi: fanno male a chi li riceve, ma non sono una colpa per chi li ha espressi.

Un altro atteggiamento errato nel quale possiamo incorrere è quello di prendere degli impegni, che, anziché costare soltanto a noi, ricadono sulle spalle di altri. Ad esempio, capita di compiere gesti di carità che non siamo in grado di fare da soli o con altri consenzienti, perché imprudentemente abbiamo esagerato nel consumare le forze o abbiamo sbagliato nel valutare l’impegno, per cui obblighiamo altri contro voglia ad aiutarci o a dover correre in nostro soccorso, subendo e riparando i nostri errori.

Ci possono essere casi contrari in cui, mancando un equilibrio ben educato ed educante, con troppa facilità si concede a Cesare quello che è di Dio, ossia si tralascia di esercitare la carità per un falso rispetto umano.

Questi esempi, che ho inquadrato nei rapporti tra singoli individui, con la giusta verifica che tenga conto dei valori di verità e giustizia, devono essere tenuti in considerazione e applicati in modo appropriato nei rapporti che intercorrono tra nazioni, classi sociali, razze e religioni.

Il cristiano si riconosce molto meglio in queste occasioni che non quando si raduna pacificamente in assemblea per insegnare l’etica cristiana.

Se si vuole essere cristiani nel modo migliore e diffondere il messaggio di Gesù prima di tutto dobbiamo rievangelizzare noi stessi alle virtù che troppo facilmente abbiamo tralasciato.

Gli esempi fin qui fatti devono aiutarci a migliorare i nostri comportamenti. È bene, possibilmente, essere preparati culturalmente, adatti ai compiti da svolgere, ma in tutti i casi dobbiamo avere una morale che corrisponda a Cristo vivente in noi: Cristo deve essere l’anima di ogni attimo della nostra vita.

Il dolore, la sofferenza, le umiliazioni, l’essere incompresi, disprezzati, ingiuriati, trascurati, disonorati, eccetera, non sono situazioni che ci devono trovare ribelli alla croce mancando alla carità, alla comprensione, al perdono e alla misericordia. Queste e altre virtù vanno acquisite e usate nei rapporti con il prossimo e nelle relazioni di qualunque tipo.

I cristiani hanno con loro Dio, sono illuminati dalla verità, ma essi non sono immuni dal peccato, per cui devono comportarsi con umiltà e comprensione ed essere aperti al dialogo riconoscendo il bene e il male ovunque esso sia.

In qualunque caso e in tutte le situazioni i cristiani non devono venir meno nella fedeltà a Dio e alla Chiesa. La Santissima Trinità e la sua Chiesa vanno viste, amate e servite nel nostro inserimento in Cristo vero Dio e vero uomo nella loro realtà trascendente e temporale.

I poveri ci danno occasione di crescere nella santità.

Ci sono molti modi per aiutare il prossimo e in modo particolare i poveri, ma ci vuole sempre la disponibilità, la rinuncia alla propria comodità, alla spensieratezza, all’agiatezza, allo svago e alle volte persino al riposo. Certo ci vuole equilibrio, ma si deve stare attenti che dietro questa parola non si nasconda il proprio egoistico pensare a sé.

Non andiamo a divertirci se sappiamo che quel tempo può essere donato a chi è in difficoltà, non mettiamo nel ventre cibo in sovrappiù mentre altre bocche sono affamate.

Cerchiamo di lavorare per il benessere ma di amare la povertà, procuriamoci il necessario ma proibiamoci il superfluo.

Il tempo del nostro vivere su questa terra va usato bene, perché, anche se vivremo molti anni, il tempo passa ed è breve.

Le virtù per costruire la santità sono molte e non si esauriscono mai; il Signore, che conosce il numero dei nostri capelli, le conta una ad una e alla fine della vita se ho lavorato poco e non sono stato generoso non servirà a nulla il mio pentimento, le mie tardive lacrime: sarò giudicato per quello che ho fatto e per quello che sono. Spero di non dover rimpiangere in quel momento tutte le possibilità di crescita del premio eterno che mi hanno offerto i poveri bisognosi che ho incontrato e che ho trascurato.

Dobbiamo convertirci per convertire.

Se osserviamo la vita delle persone ci accorgiamo come nella loro storia personale hanno avuto dei mutamenti: non penso tanto ai successi o ai fallimenti della carriera, ma ai cambiamenti di vita. Quanti giovani amici della nostra infanzia sono arrivati a scelte che allora non prevedevamo! Quante situazioni finite bene o male ci stupiscono e hanno dell’incredibile!

Le varie vicissitudini esistenziali sono state occasione per un afflosciamento o innalzamento della propria personalità. Una stessa situazione provoca reazioni diverse: uno si avvicina a Dio, un altro si allontana e questo perché siamo liberi nelle nostre risposte.

Ci sono delle conversioni strepitose e altre minute e costanti. Nella nostra vita possiamo riconoscere i fatti e i motivi delle nostre conversioni e delle nostre defezioni del passato.

Per grazia di Dio spero che sia giunto o giunga presto il momento di una nuova crescita di conversione.

Chiediamo al Signore che si realizzino in noi le invocazioni che troviamo nella preghiera del Padre nostro, così che ci sia consentito ogni giorno di convertirci definitivamente a lui. Tutti dobbiamo convertirci, perché tutti siamo chiamati ad amare Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima. Siamo chiamati ad essere santi e ad evangelizzare il mondo. Non si deve più leggere il Vangelo e restare quelli che siamo, esso ci deve migliorare, ci deve costruire per diventare pietra angolare del suo Regno.

Serve poco dire ad altri di ascoltare il Vangelo; servirebbe molto di più poter affermare umilmente: “Chi vede me vede il Padre”, perché per grazia divina Gesù mi ha convertito e ora non sono più quello del passato e neppure quello di ieri. Siamo convinti che noi cristiani siamo poca cosa, ma dopo aver fatto e dato tutto il possibile diciamo con Pietro: “Non possiedo niente, ma ti do quello che ho, cioè la fede in Cristo, e perciò ti dico: alzati, muoviti, seguilo, se vuoi essere sereno come sono io”.

La croce è benedizione.

La croce, che doveva essere motivo di scandalo, in Cristo è diventata segno d’amore.

Le nostre sofferenze, malattie, contrarietà diventano per noi motivo di insofferenza oppure serena partecipazione alle sofferenze di Cristo, così che con il suo aiuto diventano riparazione per nostri peccati e per quelli del mondo? Le difficoltà ci abbattono, le detestiamo oppure riusciamo a farle diventare occasione di mite e costante santificazione?

Se vogliamo essere forti nel portare le sofferenze e le difficoltà è necessario viverle nell’amore a Cristo crocifisso per la nostra redenzione. Nell’unione a Gesù saremo in grado di seguirlo, portando dignitosamente le vicissitudini dell’esistenza.

Ho conosciuto e continuo a conoscere persone che con una fede forte e una fiducia totale in Dio sanno trovare la forza per accettare grandi sofferenze e viverle in un modo che si può definire soltanto con la parola “santo”.

Per condurre serenamente la mia vocazione trovo ristoro e pace nel pensare che Gesù Cristo è morto per me, che lui è il mio salvatore e mi ama con amore divino‑umano. Cerco di avere un rapporto personale con lui che è mio fratello ma è anche mio Dio.

Certamente in Gesù crocifisso riconosco la persona che ci ama più di tutti ed è lui soltanto che, essendo unito al Padre e allo Spirito Santo ci permette di entrare nella gloria eterna e ci sostiene nel cammino. Non si deve dimenticare però che si va in paradiso al suo seguito e carichi delle vicissitudini del vivere quotidiano realizzato in modo evangelico.

Come la croce segno di disprezzo è diventata in Gesù segno d’amore, così le nostre difficoltà devono diventare un canto che introduce alla gloria.

Prego perché ognuno di noi sappia percorrere bene la propria esistenza e tutti reciprocamente abbiamo ad esserci di buon esempio, aiutando coloro che hanno maggiori difficoltà.

Le nostre sofferenze e quelle degli altri sono sempre per tutti occasione per comportarci con fraterna carità, per crescere nell’amore ed accogliere il dono della gloria.

Costruiamo adesso la Città sul Monte che vivrà nella gloria.

Come abbiamo avuto modo di meditare la città di Dio, cioè il paradiso, è un “luogo” che si conquista su questa terra, è un “tempo” che inizia in questo mondo. È una città che sta bene nel tempo e fuori del tempo; ad essa si arriva lavorando, pregando e facendo opere di bene gratuitamente. Il bene eterno dell’aldilà si conquista con il bene vissuto e fatto qui.

Le realtà create da Dio sembrano a noi divise, infatti diciamo che il Cielo è di là e la terra di qua. Questo è il nostro modo di dire, ma per la Santissima Trinità vi è soltanto un’unica realtà: la sua creazione.

Lo spirito e la materia sono uscite dal suo amore e rispecchiano la sua generosità, la sua armoniosa inventiva che vide essere tutta bella.

Anche questo mondo, che attualmente si ritrova nella concupiscenza del male, alla fine farà parte della terra e dei cieli nuovi.

Per poter intuire sempre meglio e sempre più il pensiero divino è necessario aumentare la forza della fede, perché è essa che riesce ad entrare nella visione del mistero di Dio e conoscere tutto quello che lui vuole che noi conosciamo.. La fiducia in Dio può favorire la conoscenza esperienziale delle verità trascendenti e renderci felici di prostarci innanzi all’Agnello immolato sulla croce, trono del suo amore. È necessario alzare le braccia verso l’alto per accogliere la carità divina e diffonderla con le azioni di servizio al prossimo, sia esso vicino o lontano.

Le cose che ho accennato fanno parte di quella linfa che scorre nella costruzione divina. Tutta la carità che l’uomo riuscirà a realizzare in terra si trasformerà in gloria quando egli raggiungerà il cielo.

Ora dobbiamo dimostrare coi fatti che siamo nel mondo ma non siamo del mondo, perché agiamo sulla terra a servizio del paese umano ma restiamo attratti dal Cielo e in comunione con esso. Nella condizione a noi possibile già fin d’ora, in modo velato, partecipiamo al tutto del presente e del futuro.

Auguriamoci di vivere di fede.

La mia esperienza mi ha insegnato che non è bene venir meno alla grazia, mentre invece è molto bello saper rispondere affermativamente a ogni dono per poter accumulare tesori in cielo e possedere la pietra preziosa. L’accumulo dei talenti con i rispettivi interessi va deposto nelle mani di Dio, infatti durante la nostra festa noi riconsegniamo i doni che lui ci ha dato: la vita, il lavoro, le buone opere, la comunione con gli uomini e così via.

Quando la nostra sapienza saprà essere chiara, con gioia si vedrà che veramente tutti dipendiamo da Dio e lui soltanto è il tutto necessario che rimane per sempre a riempire le nostre mani vuote e a mutare il cuore di pietra in cuore di carne.

Mi ricordo quando ero giovane e ascoltavo Lazzati che spiegava molto bene alcune cose che per noi giovani sembravano molto difficili da farsi, mentre lui diceva che erano semplici.

Ora che anch’io sono avanti negli anni, mi trovo nella sua stessa situazione e osservo gli uomini che si interrogano, dividono, spezzano, complicano ciò che invece è semplice, indivisibile e unico. Ho detto questo per infondervi speranza, serenità, forza e desiderio di crescere nell’amore a Dio. Il tempo che passa aiutato dalla grazia vi farà camminare verso la semplicità e la comprensione di ciò che è “luce e buio” allo stesso tempo.

Non illudiamoci: il mondo e le sue cose passano, si devono lasciare; una cosa sola è necessaria, la presenza di Dio nel nostro cuore.

Auguro a tutti noi che la fede diventi talmente efficace da permetterci di vedere con lo spirito di fede il Dio della gloria.

Se sapremo lasciarci afferrare da Cristo, la festa del Gruppo non sarà solo la festa dell’amore di Dio per noi, ma per suo dono si avrà anche la certezza di realizzare pienamente la vocazione che ci permette di partecipare all’eterno banchetto celeste e bere l’acqua di vita eterna.