Il colloquio lo realizzo così (1981)

La duplice esperienza del colloquio

Realizzo il colloquio in due modi: nell’essere responsabile di alcune perso­ne e nel dipendere dal mio responsabile. Perciò ho la grazia di vivere l’esperienza dei due atteggiamenti che emer­gono dal colloquio e di cogliere tutto intero il valore che il colloquio assu­me nella nostra comunità.

L’esperienza del colloquio come responsabile

La mia esperienza di responsabile si è arricchita nell’ascolto delle don­ne e degli uomini, dei celibi e degli sposati. In tutti vi è un atteggiamento che fa unità: amare Dio ed il prossimo, ma le diverse categorie hanno esigenze particolari.

Una differenza primaria esiste tra donne e uomini, che hanno sfu­mature differenti nell’esprimere e realizzare le stesse realtà. La persona sessuata (donna o uomo) ha una differenza che denota la sua reciprocità con l’altro sesso, per cui diventa arricchente la comunione reci­proca dei due sessi, ma resta sempre fortemente necessaria l’attenta considerazione delle realtà del genere a cui si appartiene.

Vi è una realtà ancora più significativa: ogni persona ha un suo modo caratteristico di essere e di agire. Perciò, con ognuno cerco di ricordarmi che mi trovo in comunione con un irripetibile figlio creato da Dio, che è pure un mio insostituibile fratello.

Per fare bene il colloquio cerco di avere disponibilità di tempo, ma so anche adattarmi a tempi ristretti quando sono richiesto per un colloquio all’istan­te. Il colloquio non è un momento insignificante che si può vivere sbrigativa­mente: è un momento importante che valorizza il nostro rapporto di fede, di unità e di ricerca di santificazione. «Dove due o più saranno radunati nel mio nome io sarò con loro», dice Gesù nel Vangelo.

Nel colloquio tento di mettermi in intima comunione con chi mi sta faccia a faccia. Desidero che il mio sguardo possa essere accolto e che il mio cuore, nel comunicarsi, si renda disponibile a diventare il cuore di Dio.

Ritengo importante ascoltare il fratello e la sorella, ma non sottovaluto il mio intervento per cui faccio in modo che l’incontro diventi un dialogo e non un monologo.

Anche dopo molti colloqui con la stessa persona sto attento a verificare se il mio modo di esprimermi è adatto al modo di intendere del mio interlocutore per essere in sintonia con lui o con lei.

Quando mi rivolgo a persone principianti che non sanno ancora usare bene il tempo del colloquio, le guido cercando di facilitare loro l’apprendimento pratico affinché non venga sciupato il tempo in chiacchiere superficiali. Sto attento che il dialogo non diventi soprattutto un momento di verifica psicolo­gica, ma acquisti un giusto equilibrio nel quale primeggiano i contenuti spirituali dell’ascolto della volontà di Dio.

Rarissimamente, e solo quando noto che il fratello non riesce a vedere chiaramente la sua situazione, intervengo con un consiglio che ha forza di comando, per meglio aiutarlo ad uscire dalla sua difficoltà o ad abbraccia­re le virtù. Per lo più collaboro, perché sia egli stesso ad accogliere in sé le realtà dello Spirito e diventi capace di assimilarle.

Sono convinto che in qualche modo (per la “grazia dello stato” del servizio in cui mi hanno messo) posso aiutare il fratello nella fedeltà a Dio e alla Chiesa, ma è importante che sia lui stesso a cogliere il frutto del nostro dialogo ed a far sua la visione esatta dei suoi problemi che lui deve affrontare e risolvere.

Nel colloquio tengo a mente la visione generale del suo stato di vita secondo la vocazione, mentre con premurosa attenzione ascolto e coordino le esigenze che mi vengono sottoposte. Importante per me è il compito di ricercare sempre il metodo migliore per aiutare il fratello in qualsiasi realtà spirituale e umana egli si ritrovi.

Cerco di stare attento a far emergere la verità vera di ciò che mi sta di­cendo e non quella che a volte è viziata dal modo di osservazione del mio in­terlocutore o da me. Sto attento a valutare il percorso di santificazione del fratello, ed a osservare se egli avanza con equilibrio.

L’equilibrio ha dei modi diversi per essere raggiunto per cui anche la stessa persona dovrà adattarsi a volte a correre, altre volte sarà bene che cammini normalmente, e se necessario rallenti, per prendere forza e coraggio.

Se nell’incontro mi accorgo che il fratello non è sereno e ha delle diffi­coltà, cerco di dargli occasione di tranquillità. Se invece è disattento o su­perficiale, pur con l’attenzione a non opprimerlo lo sollecito con inviti pro­vocatori che suscitino una sua partecipazione attiva. Se noto che è stanco, cerco di abbreviare il tempo del colloquio, evitando di chiedergli spiegazioni difficili o particolareggiate.

Cerco di ascoltare la relazione del fratello con attenzione, per fare miei i suoi problemi (condividendoli con animo fraterno e maturo) e per offrirgli (possibil­mente con saggezza) consigli adeguati.

Cerco anche di suscitare in lui un cammino conforme all’ascesa dell’intera Comunità, secondo le particolari sollecitazioni mosse dal Consiglio del Gruppo e dal Responsabile Generale.

Alle volte, per sostenere il fratello faccio seguire ai colloqui telefonate o lettere di stima, di comprensione, di incitamento, così da stabilire un rapporto di vera amicizia.

In ogni colloquio tengo desta interiormente la presenza del Dio buono e misericordioso, e ricordo i miei limiti, per attenermi ad un atteggiamento di umiltà e carità. La buona volontà delle sorelle e dei fratelli a voler amare e servire Dio sono per me motivo di incitamento alla fedeltà alla vocazione, per cui dal colloquio esco abbondantemente gratificato.

L’esperienza del colloquio con il mio responsabile

Vi è poi l’altra faccia della medaglia, nella quale io pure mi devo rivolgere al mio responsabile. Pur rimanendo valida una buona parte delle cose che ho già accennato, ad essa si aggiunge il desiderio di realizzare la mia santificazione mediante la mia vocazione, che il mio responsabile mi aiuta a seguire.

A volte già nei giorni precedenti, o comunque almeno il giorno stesso del colloquio, prego perché esso dia i frutti necessari per capire e fare sempre meglio la volontà di Dio. Mi preparo prendendo appunti sulla mia realtà, e se trovo troppa monotonia sto attento a individuare le piccole novità dello spirito. Cerco di mettere in evidenza le mie difficoltà, i miei sbagli (anche quelli che non avrei voglia di riferire), ma anche le belle esperienze che il Signore mi invita a condividere con lui.

Non do mai per scontati l’esito del colloquio e le risposte del responsa­bile, anche quando conosco il suo modo di agire o quando appaiono i suoi limiti. Una buona parola esce sempre dalla sua diagnosi, purché io sia capace di accoglierla.

Qualche volta, se mi accorgo di non essermi espresso bene e quindi di essere stato frainteso, rinnovo il mio intervento con altre chiarificazioni affinché risulti evidente ciò che intendevo riferire.

Anche se a volte mi è difficile, voglio credere (e per questo prego) che il Signore mi parla anche mediante il responsabile. Anche se mi può costare, cerco di comportarmi secondo il desiderio del re­sponsabile e offro al Signore le difficoltà che incontro per essere fedele al consiglio ricevuto.

Qualche volta mi è capitato di uscire dal colloquio non molto soddisfatto per non aver trovato il giusto equilibrio o la comprensione che mi aspettavo. Non mi sono mai depresso per questo, ma nei giorni successivi con calma ho ri­flettuto e ho fatto riaffiorare i contenuti dei suggerimenti ricevuti, per comprenderli meglio. Pregando ho ottenuto più chiarezza e ho così compreso meglio i consigli avuti dal responsabile. Vi assicuro che in ritardo, ma con gioia, ho ringraziato il Signore per il dono del colloquio.

Per concludere

In generale, per inserirmi nel giusto spirito, faccio mie, applicandole al colloquio (oltre che ad ogni giornata), alcune celebri massime:

  • ogni colloquio sia come il primo colloquio: con il suo entusiasmo, con il desiderio di progresso, e con tanta fede;
  • ogni colloquio sia come l’unico colloquio: da usare intensamente e nel modo migliore;
  • ogni colloquio sia come l’ultimo colloquio: con tutta la verità, l’umiltà, e la carità;
  • ogni colloquio sia vissuto in tre: Dio (il grande interprete), il fratello (fatto a imma­gine di Dio) e io (che, pur mettendoci tutto l’impegno, sono il meno importante).