Alla luce di una consacrazione a monte, si ricomprendono meglio matrimonio e celibato

Prima conclusione: la ricomprensione della consacrazione permette una ulteriore reciproca ricomprensione di matrimonio e celibato.

Sulla scia delle indicazioni più recenti del magistero, la teologia a cavallo del passaggio al terzo millennio ha sviluppato in maniera nuova (ossia attraverso il ricorso alla reciprocità) questa attenzione a integrare celibato e matrimonio [1].

·      Celibato e matrimonio in una spiritualità della loro reciprocità

Prima ancora della teologia è forse proprio la concreta spiritualità fondata sull’esperienza della consacrazione spirituale personale aperta a tutti gli stati di vita [2], a consentire di rileggere specularmente celibato e matrimonio.

L’amore totale per Dio e la conseguente consacrazione a lui è uguale per tutti, ma si esplica con modalità diverse nel matrimonio e nel celibato: per quanti sono sposa­ti, l’amore per Dio è inclusivo dell’a­more del coniuge; per quanti hanno accolto la chiamata al celibato è invece esclusivo di ogni altro amore sponsale. Tutti, anche gli sposati, sono chiamati ad amare “Dio soprattutto” e in tutto; ma i celibi sono chiamati ad amare da soli “Dio solo”. La consacrazione, intesa come offerta di sé a Dio secondo i con­­sigli evangelici, è a monte di ogni differenza vocazionale; i carismi celibatario e matrimoniale hanno egual valore ai fini della santità; lo stato di vita va quindi scelto non per inclinazione soggettiva, ma secondo il dono ricevuto da Dio.

Proprio la condivisione tra celibi e sposi porta a ricomprendere in una luce nuova il senso del celibato, attraverso una dialettica negativa (e quasi apofatica) dell’intima relazione interpersonale (in maniera vicina a quello che è stato definito “apofatismo della persona”, ossia come intimità incomunicabile della relazione interpersonale [3]), che ne esclude tutti i motivi prevalentemente umani:

Certamente… non è pensabile che Dio faccia preferenze tra i celibi e gli sposati…. Ma noi perché nel celibato? Per sua amorevole scelta…. Perché mi ha chiamato? È un mistero che non conosco, ma so che mi ha avvinto, mi ha sedotto perché a me è piaciuto lasciarmi sedurre…. Amo l’Amore…! L’assenza di un amore umano sponsale, dell’impegno ad allevare figli, ci lascia liberi di avere un tempo da dedicare ad altro…, ma ritengo che il Signore non ci abbia voluti celibi perché possiamo agire con più libertà…. Come il parto straordinario di Maria… la nostra verginità spirituale è produttiva, ingloba il Signore…. Siamo soli, ma senza solitudine. Siamo come eunuchi nel corpo, ma genitori nello spirito. Siamo sposi, celibi e padri, ma in un modo puro che dobbiamo verificare, scoprire, approfondire, da soli…. Il nostro celibato per il Regno resta nel mistero della volontà di Dio…. È un dono! “A chi in un modo, a chi in un altro”. Ognuno di noi è chiamato personalmente a scoprire l’essenza del proprio celibato…. Soltanto lo Spirito San­to ci guiderà a scoprire il perché ci abbia voluto eunuchi…. È necessario stare con il Signore e vivere con lui con una purezza sempre più ricca…: non solo una fede, ma purezza di fede, di speranza, di carità, di giustizia, di misericordia; non misera preghiera, ma preghiera pura e dono completo…. So benissimo che gli sposati esprimono bene la loro appartenenza a Dio e sanno con certezza di appartenere a lui in quella vocazione. Io invece per sapermi tutto di Dio ho dovuto lasciare la mia fidanzata: soltanto dopo questo distacco umano ho potuto sperimentare come si è tutti di Dio…. Ancora oggi mi riconosco tutto di Dio presentandomi a lui da solo. Il mio essere solo mi permette di stare bene in lui: se fossi ac­coppiato, accompagnato, non ne sarei capace, non ci riuscirei…. A noi celibi in particolare viene chiesto di essere di esempio nel­la fedeltà al tempo della preghiera, nella profonda attrattiva al “Dio solo” e nella povertà esemplare…. Il nocciolo del nostro celiba­to è di restare in Dio. Si potranno avere i contatti con gli amici, ma prima c’è Dio…. Il nostro sposo… è il nostro fratello Dio…, è Dio [4].

Analogamente, si può ricomprendere in riferimento al celibato anche il matrimonio cristiano. A tal fine occorre interpretare più a fondo l’affer­mazione di Paolo sul cuore diviso degli sposati: in realtà, l’interpre­ta­zione tradizionale assolutizzava l’accenno di Paolo ad una concreta situazione dei cristiani sposati di Corinto, per ricavarne che il matrimonio com­portasse simpliciter un cuore diviso tra Dio e il coniuge: ma tale divisione (come si è già detto) si può verificare in ogni stato di vita qualora non si inserisca l’amore per i propri cari nell’amore di Dio:

Paolo, pieno di gioia per il suo dono, afferma: “Vorrei che tutti fossero come me (celibe): ma ognuno ha da Dio il suo dono particolare, chi in un modo, chi in un altro”. Egli fa presente che altri hanno un dono diverso dal suo, cioè quello del matrimonio. Paolo tra l’altro ci insegna quanto sia più costruttivo aiutarci a sviluppare bene ciascuno il suo dono, piuttosto che privilegiare il proprio con superbia. Io celibe so quanto mi ama Dio, pur nella mia vergognosa debolezza, ma so anche quanto egli ami i miei fratelli sposati che con me condividono l’ascesi spirituale. Essendo in stretta comunione con loro, e condividendo lo stesso anelito di devozione filiale al Padre, è per me motivo di sofferenza quando sento che vengono tratteggiati come persone dal cuore “diviso”. Infatti i celibi consacrati si è soliti indicarli come persone con “cuore indiviso”; ne consegue perciò che gli sposi sono “divisi” tra Dio e le creature. Per grazia di Dio noi non siamo avvezzi a usare questo termine, che suona stonato alle nostre orecchie. Cuore “diviso” per noi significa non agire in sintonia con la volontà divina, anteporre i propri desideri ai progetti di Dio. Io non riesco a pensare che l’amore naturale dei coniugi possa diminuire il rapporto filiale con Dio…. Per sua volontà… egli dona l’amore sponsale per chiamare all’esistenza le sue creature. L’amore sponsale vissuto nella purezza sacramentale è una espressione dell’amore (Carità) di Dio. È un tralcio tipico dell’u­nica vite [5].

Con il sacramento del matrimonio, che rimanda al “mistero grande” dell’unione fra Cristo Sposo e la Chiesa Sposa, i coniugi “ven­­gono come consacrati” da Dio in coppia e costituiti re, profeti e sacerdoti della “Chiesa domestica” che è la famiglia da loro formata; oltre a ciò, riconoscendosi chiamati “ad amare Dio so­prat­tutto e in tutto e ad amare in lui coniuge e figli”, essi possono lodevolmente e singolarmen­te donarsi a Dio abbracciando nel loro stato, anche con qualche vincolo sacro, i consigli evangelici [6]. Con tale “con­sa­cra­zione personale e spirituale” di sé a Dio, chi è sposa­to rafforza il suo impegno ad esprimere con delica­tezza e nel­la carità sovrannatura­le la sessualità coniugale, sapendone cogliere i modi e i momenti secondo il magistero della Chiesa, a sorgente e difesa di comunio­ne spiri­tuale; ad accogliere e crescere con amore i figli generati o accolti, quali figli di Dio prima che propri; e ad aprirsi secondo le proprie possibilità a chi è nel bisogno.

·      Matrimonio e celibato in un emblematico discorso di Benedetto XVI

Il papa Benedetto XVI nella prima parte dell’enciclica Deus caritas est del 2006, aveva mostrato la connessione di eros e agape, ossia di amore come ricerca e di amore come comunicazione, già in Dio e poi nell’u­ma­nità [7]. Pochi mesi dopo, nel discorso alla Curia Romana al termine del 2006, in maniera per certi versi sorprendente ha descritto i principali atti del suo magistero pastorale di quell’anno come unificati dal Leitmotiv di Dio e del suo amore. In quello che ci appare come uno splendido polittico, è qui interessante osservare in particolare l’efficace dittico relativo al matrimonio e al celibato (il primo, alla luce dell’incontro ecclesiale mondiale con le famiglie in Spagna; il secondo, alla luce dell’incontro con il clero in Germania, e quindi in riferimento alla vocazione al sacerdozio ministeriale nella Chiesa latina):

È stato bello ascoltare, davanti all’assemblea di persone di tutti i continenti, la testimonianza di coniugi che – benedetti da una schiera numerosa di figli – si sono presentati davanti a noi e hanno parlato dei rispettivi cammini nel sacramento del matrimonio e all’interno delle loro famiglie numerose. Non hanno nascosto il fatto di aver avuto anche giorni difficili, di aver dovuto attraversare tempi di crisi. Ma proprio nella fatica del sopportarsi a vicenda giorno per giorno, proprio nell’accettarsi sempre di nuovo nel crogiolo degli affanni quotidiani, vivendo e soffrendo fino in fondo il sì iniziale – proprio in questo cammino del “perdersi” evangelico erano maturati, avevano trovato se stessi ed erano diventati felici. Il sì che si erano dato reciprocamente, nella pazienza del cammino e nella forza del sacramento con cui Cristo li aveva legati insieme, era diventato un grande sì di fronte a se stessi, ai figli, al Dio Creatore e al Redentore Gesù Cristo. Così dalla testimonianza di queste famiglie ci giungeva un’onda di gioia, non di un’allegrezza superficiale e meschina che si dilegua presto, ma di una gioia maturata anche nella sofferenza, di una gioia che va nel profondo e redime veramente l’uomo. Davanti a queste famiglie con i loro figli, davanti a queste famiglie in cui le generazioni si stringono la mano e il futuro è presente, il problema dell’Europa, che apparentemente quasi non vuol più avere figli, mi è penetrato nell’anima. Per l’estraneo, quest’Europa sembra essere stanca, anzi sembra volersi congedare dalla storia. Perché le cose stanno così? Questa è la grande domanda. Le risposte sono sicuramente molto complesse. Prima di cercare tali risposte è doveroso un ringraziamento ai tanti coniugi che anche oggi, nella nostra Europa, dicono sì al figlio e accettano le fatiche che questo comporta: i problemi sociali e finanziari, come anche le preoccupazioni e fatiche giorno dopo giorno; la dedizione necessaria per aprire ai figli la strada verso il futuro. Accennando a queste difficoltà si rendono forse anche chiare le ragioni perché a tanti il rischio di aver figli appare troppo grande. Il bambino ha bisogno di attenzione amorosa. Ciò significa: dobbiamo dargli qualcosa del nostro tempo, del tempo della nostra vita. Ma proprio questa essenziale “materia prima” della vita – il tempo – sembra scarseggiare sempre di più. Il tempo che abbiamo a disposizione basta appena per la propria vita; come potremmo cederlo, darlo a qualcun altro? Avere tempo e donare tempo – è questo per noi un modo molto concreto per imparare a donare se stessi, a perdersi per trovare se stessi. A questo problema si aggiunge il calcolo difficile: di quali norme siamo debitori al bambino perché segua la via giusta e in che modo dobbiamo, nel fare ciò, rispettare la sua libertà? Il problema è diventato così difficile anche perché non siamo più sicuri delle norme da trasmettere; perché non sappiamo più quale sia l’uso giusto della libertà, quale il modo giusto di vivere, che cosa sia moralmente doveroso e che cosa invece inammissibile. Lo spirito moderno ha perso l’orientamento, e questa mancanza di orientamento ci impedisce di essere per altri indicatori della retta via. Anzi, la problematica va ancora più nel profondo. L’uomo di oggi è insicuro circa il futuro. È ammissibile inviare qualcuno in questo futuro incerto? In definitiva, è una cosa buona essere uomo? Questa profonda insicurezza sull’uomo stesso – accanto alla volontà di avere la vita tutta per se stessi – è forse la ragione più profonda, per cui il rischio di avere figli appare a molti una cosa quasi non più sostenibile. Di fatto, possiamo trasmettere la vita in modo responsabile solo se siamo in grado di trasmettere qualcosa di più della semplice vita biologica e cioè un senso che regga anche nelle crisi della storia ventura e una certezza nella speranza che sia più forte delle nuvole che oscurano il futuro. Se non impariamo nuovamente i fondamenti della vita – se non scopriamo in modo nuovo la certezza della fede – ci sarà anche sempre meno possibile affidare agli altri il dono della vita e il compito di un futuro sconosciuto. Connesso con ciò è, infine, anche il problema delle decisioni definitive: può l’uomo legarsi per sempre? Può dire un sì per tutta la vita? Sì, lo può. Egli è stato creato per questo. Proprio così si realizza la libertà dell’uomo e così si crea anche l’ambito sacro del matrimonio che si allarga diventando famiglia e costruisce futuro. […].

La Chiesa deve parlare di tante cose: di tutte le questioni connesse con l’essere uomo, della propria struttura e del proprio ordinamento. Ma il suo tema vero e – sotto certi aspetti – unico è “Dio”. E il grande problema del­l’Occidente è la dimenticanza di Dio: è un oblio che si diffonde. In definitiva, tutti i singoli problemi possono essere riportati a questa domanda, ne sono convinto. Perciò, in quel viaggio la mia intenzione principale era di mettere ben in luce il tema “Dio”, memore del fatto che in alcune parti della Germania vive una maggioranza di non-battezzati, per i quali il cristianesimo e il Dio della fede sembrano cose che appartengono al passato. Parlando di Dio, tocchiamo anche precisamente l’argomento che, nella predicazione terrena di Gesù, costituiva il suo interesse centrale. Il tema di tale predicazione è il dominio di Dio, il “Regno di Dio”. Con ciò non è espresso qualcosa che verrà una volta o l’altra in un futuro indeterminato. Neppure si intende con ciò quel mondo migliore che cerchiamo di creare passo passo con le nostre forze. Nel termine “Regno di Dio” la parola “Dio” è un genitivo soggettivo. Questo significa: Dio non è un’aggiunta al “Regno” che forse si potrebbe anche lasciar cadere. Dio è il soggetto. Regno di Dio vuol dire in realtà: Dio regna. Egli stesso è presente ed è determinante per gli uomini nel mondo. Egli è il soggetto, e dove manca questo soggetto non resta nulla del messaggio di Gesù. Perciò Gesù ci dice: il Regno di Dio non viene in modo che si possa, per così dire, mettersi sul lato della strada ed osservare il suo arrivo. “È in mezzo a voi!” (cfr Lc 17,20s). Esso si sviluppa dove viene realizzata la volontà di Dio. È presente dove vi sono persone che si aprono al suo arrivo e così lasciano che Dio entri nel mondo. Perciò Gesù è il Regno di Dio in persona: l’uomo nel quale Dio è in mezzo a noi e attraverso il quale noi possiamo toccare Dio, avvicinarci a Dio. Dove questo accade, il mondo si salva.

Con il tema di Dio <è collegato> […] il tema del sacerdozio [e del celibato]. Paolo chiama Timoteo – e in lui il Vescovo e, in genere, il sacerdote – “uomo di Dio” (1 Tim 6,11). È questo il compito centrale del sacerdote: portare Dio agli uomini. Certamente può farlo soltanto se egli stesso viene da Dio, se vive con e da Dio. Ciò è espresso meravigliosamente in un versetto di un Salmo sacerdotale che noi – la vecchia generazione – abbiamo pronunciato durante l’ammissione allo stato chiericale: “Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita” (Sal 16 [15],5). L’orante-sacerdote di questo Salmo interpreta la sua esistenza a partire dalla forma della distribuzione del territorio fissata nel Deuteronomio (cfr 10,9). Dopo la presa di possesso della Terra ogni tribù ottiene per mezzo del sorteggio la sua porzione della Terra santa e con ciò prende parte al dono promesso al capostipite Abramo. Solo la tribù di Levi non riceve alcun terreno: la sua terra è Dio stesso. Questa affermazione aveva certamente un significato del tutto pratico. I sacerdoti non vivevano, come le altre tribù, della coltivazione della terra, ma delle offerte. Tuttavia, l’affermazione va più in profondità. Il vero fondamento della vita del sacerdote, il suolo della sua esistenza, la terra della sua vita è Dio stesso. La Chiesa, in questa interpretazione anticotestamentaria dell’esistenza sacerdotale – un’interpretazione che emerge ripetutamente anche nel Salmo 118 [119] – ha visto con ragione la spiegazione di ciò che significa la missione sacerdotale nella sequela degli Apostoli, nella comunione con Gesù stesso. Il sacerdote può e deve dire anche oggi con il levita: “Dominus pars hereditatis meae et calicis mei”. Dio stesso è la mia parte di terra, il fondamento esterno ed interno della mia esistenza. Questa teocentricità dell’esistenza sacerdotale è necessaria proprio nel nostro mondo totalmente funzionalistico, nel quale tutto è fondato su prestazioni calcolabili e verificabili. Il sacerdote deve veramente conoscere Dio dal di dentro e portarlo così agli uomini: è questo il servizio prioritario di cui l’umanità di oggi ha bisogno. Se in una vita sacerdotale si perde questa centralità di Dio, si svuota passo passo anche lo zelo dell’agire. Nell’eccesso delle cose esterne manca il centro che dà senso a tutto e lo riconduce all’unità. Lì manca il fondamento della vita, la “terra”, sulla quale tutto questo può stare e prosperare.

Il celibato, che vige per i Vescovi in tutta la Chiesa orientale ed occidentale e, secondo una tradizione che risale a un’epoca vicina a quella degli Apostoli, per i sacerdoti in genere nella Chiesa latina, può essere compreso e vissuto, in definitiva, solo in base a questa impostazione di fondo. Le ragioni solamente pragmatiche, il riferimento alla maggiore disponibilità, non bastano: una tale maggiore disponibilità di tempo potrebbe facilmente diventare anche una forma di egoismo, che si risparmia i sacrifici e le fatiche richieste dall’accettarsi e dal sopportarsi a vicenda nel matrimonio; potrebbe così portare ad un impoverimento spirituale o ad una durezza di cuore. Il vero fondamento del celibato può essere racchiuso solo nella frase: Dominus pars – Tu sei la mia terra. Può essere solo teocentrico. Non può significare il rimanere privi di amore, ma deve significare il lasciarsi prendere dalla passione per Dio, ed imparare poi grazie ad un più intimo stare con Lui a servire pure gli uomini. Il celibato deve essere una testimonianza di fede: la fede in Dio diventa concreta in quella forma di vita che solo a partire da Dio ha un senso. Poggiare la vita su di Lui, rinunciando al matrimonio ed alla famiglia, significa che io accolgo e sperimento Dio come realtà e perciò posso portarlo agli uomini. Il nostro mondo diventato totalmente positivistico, in cui Dio entra in gioco tutt’al più come ipotesi, ma non come realtà concreta, ha bisogno di questo poggiare su Dio nel modo più concreto e radicale possibile. Ha bisogno della testimonianza per Dio che sta nella decisione di accogliere Dio come terra su cui si fonda la propria esistenza. Per questo il celibato è così importante proprio oggi, nel nostro mondo attuale, anche se il suo adempimento in questa nostra epoca è continuamente minacciato e messo in questione. Occorre una preparazione accurata durante il cammino verso questo obiettivo; un accompagnamento persistente da parte del Ve­scovo, di amici sacerdoti e di laici, che sostengano insieme questa testimonianza sacerdotale. Occorre la preghiera che invoca senza tregua Dio come il Dio vivente e si appoggia a Lui nelle ore di confusione come nelle ore della gio­ia. In questo modo, contrariamente al trend culturale che cerca di convincer­ci che non siamo capaci di prendere tali decisioni, questa testimonianza può essere vissuta e così, nel nostro mondo, può rimettere in gioco Dio come realtà.


[1] Cf a livello mondiale l’attività scientifica e accademica del Pontificio Istituto “Giovanni Paolo II” per gli studi su matrimonio e famiglia (con sede a Roma, ma con numerose sezioni distaccate nei vari continenti); e a livello italiano (che in questo campo sembra essere all’avan­guardia), cf ad esempio Renzo Bonetti (Ed.), La reciprocità verginità‑matrimonio. Il dono del­l’alte­rità nella Chiesa una e santa, Cantagalli, Siena 1999 e Id. (Ed.), La reciprocità verginità-matrimonio. Profezia di comunione nella Chiesa sposa, Cantagalli, Siena 2000, volumi degli Atti di due Seminari di studi promossi dall’Ufficio per la pastorale della famiglia della Conferenza Episcopale Italiana (significativi perché frutto di uno sforzo collettivo promosso dalla Chiesa Italiana con la partecipazione attiva delle aggregazioni ecclesiali impegnate nella spiritualità matrimoniale e familiare, ma anche delle conferenze italiane dei superiori maggiori religiosi); in continuità con il precedente, Giulia Paola Di Nicola – Attilio Danese, Verginità e matrimonio. Reciprocità e diversità di due vocazioni, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000 (contributo significativo anche per il fatto che i due autori sono tra loro sposati). Un approccio teologico che tende alla sovrapposizione e composizione del simbolismo nuziale ad entrambi gli stati di vita e alla struttura stessa della persona è quello di Giorgio Mazzanti, Teologia sponsale e sacramento delle nozze. Simbolo e simbolismo nuziale, EDB, Bologna 2002; Id., Persone nuziali. Communio nuptialis. Saggio teologico di antropologia, EDB, Bologna 2005. Un approccio teologico che sviluppa invece il senso del matrimonio come sacramento della coppia è quello di Il sacramento della coppia. Saggio di teologia del matrimonio cristiano, EDB, Bologna 2003. Per una panoramica storica retrospettiva, cf anche Angela A. Tozzi, Abbracciati nel vento. Matrimonio e verginità a confronto, EMP, Padova 2005. Si aggiunga la rinnovata attenzione alla celebrazione liturgica della consacrazione delle vergini o della professione religiosa e per la celebrazione del matrimonio (per cui tra l’altro sono stati approntati i rituali rinnovati): cf Achille Triacca, Matrimonio e verginità. Teologia e celebrazione per una pienezza di vita in Cristo, LEV, Città del Vaticano 2005.

[2] Tale consacrazione è in effetti formulabile anche in condizione aperta, ossia prima ancora di aver “deciso” il proprio stato di vita in forma matrimoniale o celibataria (comprendendo in quest’ultima, pur con le sue specifiche caratteristiche, anche lo stato di sacra vedovanza).

[3] Questo modo è stato recentemente riproposto in maniera molto interessante da Christós Yannarás [cf in particolare Heidegger e Dionigi Areopagita], anche se forse con una eccessiva accentuazione individualistica del rapporto del credente a Dio.

[4] Della Savia, Con animo sereno, cit., p. 37 (stralci di un testo del 1997), in appendice alla seguente “preghiera dei celibi” (composta dall’autore nel 2000): «Signore santo, che hai voluto chiamarmi nel tuo Regno mediante la vocazione celibataria, con serena gioia mi addentro nel tuo volere e per sempre mi abbandono a te in costante adesione alla tua volontà. Aiutami ad esserti fedele e a condividere e realizzare filialmente ogni tuo progetto. Allontana da me ogni timore e non permettermi di resisterti. Concedimi il dono di preferirti a tutto, di perseverare per tutta la vita nella vocazione, di esserti sempre riconoscente e di non at­­tendere altra ricompensa se non quella di re­stare fratello di Gesù e suo fedele discepolo. Insegnami a vivere nel fuoco divino del tuo amore. Il mio appartenere a te ti consenta di mettermi liberamente al servizio di ogni persona da salvare, aiutare, amare nel segno della tua presenza. Eccomi in te, Signore, con tutto il mio amore indivisibile ed esclusivo. Amen». L’autore, nato nel 1926, un cristiano laico che aveva riscoperto la fede da adulto (nel 1950), aveva colto il senso di una consacrazione spirituale della persona (a monte di ogni differenza vocazionale) e dopo una seria esperienza di fidanzamento, aveva scoperto e abbracciato il celibato (secolare), ha poi voluto evidenziare il “valore sponsale insito in ogni persona” nell’esperienza comunitaria da lui iniziata nel 1957, il Piccolo Gruppo di Cristo, in cui si propone una consacrazione della persona o nel celibato, o nel matrimonio (anche di uno solo dei coniugi), o nella sacra vedovanza, o in condizione aperta.

[5] Ibid., p. 40 (stralci di un testo del 1985), in appendice alla seguente “preghiera degli sposati” con l’impegno dei consigli evangelici (composta dall’autore nel 1998): «Spirito Santo, che con il Padre e il Figlio inondi d’amore tutto l’universo, fortifica con la tua divina luce il nostro amore sponsale. Il nostro matrimonio sia fecondo di tutte le virtù che hai seminato nel sentiero della nostra esistenza. Ti lodiamo e ti ringraziamo perché ad uno ad uno ci hai chiamati ad abbracciare con vincoli d’amore i consigli evangelici. Fa’ che l’impegno ad essere poveri ci arricchisca della tua presenza, la castità faccia emergere nella nostra vita la purezza del tuo amore e l’umile obbedienza esalti la tua gloria. Riconoscendo la priorità della tua presenza nel nostro amore, ti preghiamo di aiutarci ad essere fedeli l’un l’altra, secondo l’e­sem­pio dell’Alleanza col popolo da te radunato, santificato e glorificato. Aiuta noi sposi ad amarci come Cristo ama la Chiesa sua sposa: fa’ che il nostro amore sia aperto al dono della vita e la nostra casa spalancata a chi cerca condivisione. Spirito Santo, fa’ di noi ciò che tu vuoi, affinché il nostro amore sponsale e familiare possa rendere evidente il tuo amore per gli uomini. Amen».

[6] Cf Ef 5,29-32; 1Cor 7,15; per la Chiesa domestica, Lumen Gentium, 11d; Gaudium et Spes, 48d; per la speciale donazione di sé a Dio degli sposati secondo i consigli evangelici, Giovanni Paolo II, Vita consecrata, 62.

[7] In particolare [da traduzione ufficiale vaticana], cf i n. 9-11: «Dio ama, e questo suo amore può essere qualificato senz’al­tro come eros […]. Soprattutto i profeti Osea ed Ezechiele hanno descritto questa passione di Dio per il suo popolo con ardite immagini erotiche. Il rapporto di Dio con Israele viene illustrato mediante le metafore del fidanzamento e del matrimonio; di conseguenza, l’idolatria è adulterio e prostituzione» [9]; «L’eros di Dio per l’uomo […] è insieme totalmente agape. Non soltanto perché viene donato del tutto gratuitamente, senza alcun merito precedente, ma anche perché è amore che perdona. Soprattutto Osea ci mostra la dimensione dell’agape nell’amore di Dio per l’uomo, che supera di gran lunga l’aspetto della gratuità» [10]; «l’eros è come radicato nella natura stessa dell’uomo; Adamo è in ricerca e “abbandona suo padre e sua madre” per trovare la donna; solo nel loro insieme rappresentano l’interezza dell’umanità, diventano “una sola carne”»; «in un orientamento fondato nella creazione, l’eros rimanda l’uomo al matrimonio, a un legame caratterizzato da unicità e definitività; così, e solo così, si realizza la sua intima destinazione. All’immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio monogamico. Il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano» [11].