In ogni stato di vita si può essere canonizzati, dunque a maggior ragione consacrati

Ottavo argomento: dato che gli sposi possono essere canonizzati, a maggior ragione possono essere consacrati.

La vita evangelica, o vita secondo il Vangelo, è la vita della per­fezione. Nel suo senso originario “perfezione” non vuol dire perfezione compiuta, ma vuol dire opera di perfezionamento, in base al comando: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”. La vita evangelica è impegnarsi ad usare gli strumenti per tendere effet­tivamente alla perfezione.

Per San Tommaso, la virtù di religione è la stessa cosa che la santità, ed è alla base della devozione (con cui ci si vota a Dio) e della vita religiosa stessa (in quanto i voti in essa emessi vanno adempiuti per virtù di religione) [1]. Non è detto quindi che tutti i consacrati siano santi, però sono in uno stato che se ben vissuto li porta alla santità.

Nei processi di canonizzazione, quando si deve stabilire l’eroicità delle virtù di un servo di Dio, le virtù da provare sono le tre teologali, le quattro cardinali e le quattro evangeliche, cioè la povertà, la castità, l’ubbidienza e l’umiltà [2]. Questo vuol dire che uno per essere dichiarato santo deve eccellere in tutte queste virtù.

Dato però che abbiamo anche dei santi sposati, ne consegue che anche gli spo­sa­ti possono avere in grado eroico le virtù evan­geliche (corrispon­den­ti appunto ai con­si­gli) [3]. Ma qui ci troviamo di fronte a un paradosso: gli sposi possono essere riconosciuti santi, ma non possono essere riconosciuti come consacrati. Se si può il più, si può anche il meno [4]. Chi può conseguire la santità in grado eroico, non potrebbe allora anche vivere la con­sacrazione?

Anzi, possiamo arrivare a dire di più: non si può diventare veramente santi senza essere almeno implici­ta­men­te consacrati, ovvero senza aver prima votato totalmente, esclusivamente e perpetuamente (una volta per tutte e almeno nel segreto del proprio cuore) la propria vita a Dio. Questa è infatti la “porta stretta” da attraversare “senza più volgersi indietro”, pur sapendo che nella realizzazione del proposito ci saranno molte titubanze e ricadute, e che dunque bisognerà rinnovare giorno per giorno il “sì” iniziale. La santità non può tollerare compromessi o condizioni, o accontentarsi di dare volta per volta a Dio i frutti dell’albero, senza donare l’albero stesso a lui, irrevocabilmente e in perpetuo.

Non a caso, secondo la dottrina classica del gesuita Louis Lallemant, lo sviluppo della vita spi­rituale dei santi prevede ordinariamente almeno “due conversioni: l’una, con cui si consacrano al servizio di Dio; l’altra, con cui si votano interamente alla perfezione” [5]. Basandosi in parte sulla medesima dottrina, il domenicano Réginald Garrigou‑Lagrange ha posto questa seconda conversione come passaggio dalla via purgativa degli incipienti a quella illuminativa dei proficienti [6]. A fondamento di tutto questo discorso, secondo la dottrina accreditata di Giovanni della Croce [nel Cantico spirituale 22.3], il vertice mistico della santità qui in terra è il matrimonio spirituale, che comporta (per dono straor­­di­nario di Dio) la confermazione in grazia, che è (secondo quanto dicevamo nella premessa) la somma consa­crazione (e quasi il princeps analogatum di ogni consacrazione).


[1] Cf Tommaso, Summa II‑II, 81.8; 82.1; 88.5-7.

[2] Cf Fabijan Veraja, Le cause di canonizzazione dei santi, LEV, Città del Vaticano 1992, p. 125-129 e passim. Sul rapporto che c’è fra stato di perfezione (e quindi vita canonicamente consacrata), via unitiva o perfettiva della vita mistica e santità eroica, cf Réginald Garri­gou‑Lagrange, Les trois âges de la vie intérieure prélude de celle du ciel, Cerf, Paris 1951; trad. it., Le tre età della vita interiore, preludio di quella del cielo. Trattato di teologia ascetica e mistica, vol. 4 (“La via unitiva dei perfetti”), Vivere In, Roma 1984, seconda sezione (“L’eroicità delle virtù”), p. 113-168.

[3] A questo proposito occorre menzionare le Riflessioni sul grande giubileo dell’anno Duemila, documento riservato redatto dalla Segreteria di Stato ma personalmente ispirato da Giovanni Paolo II e indirizzato ai Cardinali per il Concistoro straordinario del 9-10 maggio 1994 (poi posticipato al 13-14 giugno) [il testo è stato pub­bli­cato da “Adista” del 28 maggio 1994 (n. 42) e non è stato smentito]; al punto 8 afferma che uno degli obiettivi della Sede Apostolica per l’anno 2000 è di «studiare il metodo migliore per la costatazione della santità delle persone che nei nostri tempi vivono della verità di Cristo. Un metodo al riguardo è stato certamente elaborato da tempo, ma occorre aggiornarlo specialmente per quanto riguarda i santi laici che vivono nel matrimonio. Convinti come siamo che non mancano frutti di santità in tale stato, sentiamo il bisogno di trovare gli strumenti per far sì che una simile santità possa esser verificata dalla Chiesa e presentata come modello agli altri».

In effetti, in passato (in conformità col principio agostiniano, in precedenza menzionato, per cui ci si sposa non per dedicarsi a Dio, e semmai ci si può dedicare a lui dopo sposati) i coniugati venivano beatificati o canonizzati solo (o quasi) in quanto avevano conseguito la santità dopo la fine, per vedovanza o legittima separazione, della convivenza coniugale: così, ad esempio, Santa Rita è celebrata come religiosa. Invece adesso si tende a valorizzare la santità nello stato matrimoniale stesso, in base ad una più precisa visione teologica, che non può non riflettersi anche nella teologia della vita consacrata.

[4] In realtà, la vita consacrata è sempre stata vista in chiave escatologica, come “prean­nuncio della gloria celeste” e “segno della vita futura” [cf CIC can. 573, § 1; 607, § 1], e quindi in stretta unione con la vita mistica (in terra) e la vita gloriosa (in cielo). In qualche modo la canonizzazione è la “cifra” della consacrazione: la prima dichiara una santità già compiuta, la seconda dichiara invece una santità da compiersi. Ammettere dunque gli sposi alla canonizzazione e non ammetterli a pieno titolo alla consacrazione canonicamente intesa farebbe in parte perdere alla vita consacrata la sua connessione ideale alla santità eroica.

[5] Cf Louis Lallemant [morto nel 1635], La doctrine spirituelle, 2.6.2.1; ed. it.: La dottrina spirituale, Paoline, Roma 1985, p. 132-133. Ebbene, secondo lui, lo scopo del terzo anno di noviziato dei gesuiti (in preparazione della professione solenne e perpetua) sarebbe appunto quello di favorire la seconda conversione, come invece lo scopo del noviziato vero e proprio (in preparazione dei voti semplici) sarebbe quello di realizzare la prima.

[6] Cf Réginald Garrigou‑Lagrange, Le tre età…, cit., vol. 3, cap. 2-3, p. 27-47.