La consacrazione è grazia santificante, a monte dei carismi

Sesto argomento: la consacrazione consiste essenzialmente in una “gratia gratum fa­­­ciens” e pertanto è a monte di matrimonio e celibato, che sono carismi o “gratiae gratis datae” [1].

Nella teologia della grazia si distinguono la grazia che santifica le persone (“gratia gratum faciens”, o semplice­mente “grazia”) e la grazia che edifica la Chiesa e che è data al singolo per l’utilità comune (“gratia gratis data” o “carisma”).

Secondo una fondata tradizione teologica, la grazia santificante si ramifica progres­sivamente (secondo tre gradi) nelle virtù teologali e cardinali, nei doni dello Spirito Santo (fra cui il Consiglio, che si diffonde nei consigli evangelici) e nelle beatitudini [2].

Invece i carismi sono dati alle persone indipenden­temente dalla loro santità, ma semplicemente per edificare la Chiesa. Mentre la grazia santificante è uguale per tutti (e pertanto le virtù sono sempre le stesse per tutti, pur nel variare delle modalità da caso a caso), i carismi invece sono diversi da persona a persona perché la Chiesa è un corpo e ha bisogno di funzioni diverse. I carismi non compor­tano la santità di chi li possiede, sicché possono essere dati (per il bene della Chiesa) anche a un peccatore che non ne trae giovamento per sé (classico è il caso di Caifa che ebbe a sua insaputa e certo senza suo merito il carisma di profetare la morte redentrice di Gesù).

D’altro canto, il buon uso dei carismi ricevuti è meritorio e quindi santi­ficante, mentre l’abuso è degno di condanna, come insegnano la parabola dei talenti e quella dell’am­­mi­­ni­­stratore a cui il padrone ha commesso il dominio sulla sua casa, come pure l’esorta­zione petrina ad essere “buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio” [1Pt 4,10]. Per questo i carismi devono essere messi al servizio di tutti nei corrispettivi ministeri e operazioni.

La triade paolina di “carismi” (effusi dall’unico Spirito), “ministeri” (in conformità all’unico Ministro e Signore Gesù) e “operazioni” (a imitazione dell’unico Dio e Padre che opera tutto e sempre) [cf 1Cor 12,4-6] non solo manifesta la Chiesa come “popolo radunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” [Lumen Gentium, 4] e icona della Trinità, ma segnala probabilmente tre fasi successive nella assunzione di re­spon­sabilità ecclesiali: inizialmente e spontaneamente lo Spirito suscita nei singoli i carismi; quando tali carismi ven­gono almeno implicitamente riconosciuti (mediante la missione canonica nella comunione gerarchica) o addi­rit­tura corroborati da un sacramento (che conferisce una speciale capacità o funzione sacerdotale) all’in­terno della comunità, essi diventano ministeri (stabili), e quando tali ministeri vengono posti in esercizio dai singoli divengono operazioni.

Nell’epistolario paolino troviamo diverse enumerazioni (che riflettono diversi gradi di sviluppo della comunità ecclesiale) dei carismi ecclesiali “dati per l’utilità comune” e per l’edificazione del corpo che è la Chiesa [cf 1Cor 12,4-31; Ef 4,11]; questi elenchi dopo gli apostoli e ai profeti comprendono soprattutto i pastori e presidenti di comunità, i dottori ed evangelizzatori e gli assistenti, oltre ad alcuni carismi straordinari e miracolosi. In aggiunta a questi Paolo espli­­ci­tamente nomina anche il matrimonio e il celibato: “ciascuno ha il proprio carisma da Dio, chi in un modo, chi nell’altro” [1Cor 7,7].

Insomma, troviamo due generi di carismi e ministeri nella Chiesa: quelli relativi all’ordinamento gerarchico e istituzionale (in senso lato) della Chiesa (ossia sull’Ordine e gli altri ministeri ecclesiali, anche impliciti) e quelli relativi allo stato di vita matrimoniale o celibatario.

Così il matrimonio e il celibato sono carismi suscitati dallo Spirito che divengono ministeri rispet­ti­va­mente con il consenso matrimoniale e con l’assunzione del celibato; poiché il ministero matrimoniale (a differenza di quello celibatario) comporta però l’esercizio di azioni sacerdotali proprie e riservate (ossia l’edificazione della Chiesa domestica mediante anche l’unione coniugale, segno dell’unione fra Cristo e la Chiesa), ad esse i cri­stia­ni debbono essere abilitati da uno speciale sacramento (da cui “sono corroborati e quasi consacrati” [GS 48d]). Similmente, il carisma pastorale, sebbene suscitato in germe dallo Spirito nei singoli candidati, deve essere vagliato dalla Chiesa e viene efficacemente trasmesso “mediante l’imposizione delle mani” nel sacramento dell’ordine, che costituisce il singolo nel sacro ministero e lo abilita in gradi diversi ad esercitare azioni sacerdotali proprie, quanto alla celebrazione dei sacramenti della Chiesa.

Paolo ribadisce una gerarchia di importanza dei carismi: fra quelli di ordinamento della Chiesa viene prima quello di apostolo, e poi quello di profeta, e così via; fra matrimonio e celibato, Paolo dice che “chi si sposa fa bene e chi non si sposa fa meglio” (esamineremo nelle risposte alle obiezioni le possibili interpretazioni da dare a questa superiorità del celibato sul matrimonio).

Tuttavia, il carisma più grande, che da tutti deve essere perseguito, è però la ricerca della pienezza di carità [cf 1Cor 12,31-14,1]: in tal modo le gratiae gratis datae tendono alla loro perfezione nella grazia santificante stessa. In questa linea (nella convergenza di carismi e grazia) va inserita la consacrazione di sé a Dio.

La consacrazione infatti da una parte consiste essenzialmente (quando è interiormente vissuta) in una maggiore grazia santificante, ossia nell’esercizio stabile dei doni dello Spirito Santo (e in particolare di quello del Consiglio, secondo la dottrina di Bonaventura), in una sovrabbondanza della carità (una fiammata, secondo la felice immagine del Sales), e quindi (per adoperare le parole di Paolo) nell’“aspirare ai carismi più grandi” secondo “la via migliore di tutte” che porta, mediante l’incremento della fede e della speranza, alla ricerca della pienezza di carità.

D’altra parte, però, la consacrazione consiste strumentalmente anche nell’assunzione di alcuni mezzi adatti a conseguire la suddetta grazia gratum faciens: ossia l’assun­zione dei consigli evangelici secondo uno specifico carisma di vita consacrata, che è (questo sì) una gratia gratis data dallo Spirito.

Il carisma specifico determina le diverse modalità del­l’as­sun­zione dei consigli evangelici, sia dal punto di vista del riconoscimento ecclesiale dell’impegno, sia dal punto di vista invece di forma e tipo; con la scelta vocazionale (avvenga mediante voti o altro vincolo, anche solo informale) il singolo si riconosce ed è riconosciuto in questo suo carisma ed abilitato ad una peculiare ministerialità nella Chiesa.

L’assunzione (per voto o altro vincolo) dei consigli evangelici può essere fatta in base al diritto vigente o in forma solo privata [cf CIC can. 1191-1192], oppure in una forma solo in qualche modo rico­nosciuta dalla Chiesa (all’interno di associazioni di fedeli finalizzate “all’in­cre­mento di una vita più perfetta” [cf CIC can. 298]), oppure in una forma di vita consacrata ufficialmente sancita dalla Chiesa: al momento, gli istituti religiosi e secolari e l’eremitismo; per assimilazione, l’ordo virginum e le società di vita apostolica; a questa forma possiamo per una qualche analogia accostare anche i chierici diocesani, chiamati ad una certa pratica dei consi­gli evangelici [cf CIC can. 276, 273, 277, 282]. D’altra parte, si deve in qualche modo ammettere una forma intermedia, tra quella pubblica e quella privata, di assunzione dei consigli evangelici: ossia quella che viene fatta dalle associazioni di fedeli o che aspirano a diventare istituti di vita consacrata, o che si riconoscono come comunità di vita evangelica nel mondo; in tal caso (soprattutto quando tali associazioni sono riconosciute dall’autorità ecclesiastica) i vincoli di assunzione dei consigli evangelici non sono pubblici, ma nemmeno strettamente privati, ma comunitari.

Quanto poi alla tipologia della vita di consacrazione, possiamo distinguerne una forma assolutamente individuale (come nel caso degli eremiti), una forma individuale ma inserita nella Chiesa particolare (come nel caso dell’ordo virginum e – in senso lato ­– del clero dioce­sano), e una forma collettiva, secondo un più specifico tipo (mo­na­stico, conventuale, apostolico, secolare, evangelico in famiglia…) e secondo un peculiare carisma di fondazione in una precisa comunità.

L’ordo virginum (ossia l’insieme di donne consacrate nel celibato davanti al vescovo e all’interno della Chiesa diocesana) è stato ripristinato dopo il Concilio Vaticano II, ma si riallaccia ad una tradizione antichissima: nella Chiesa primitiva era attestata una presenza organica di donne votate alla verginità [At 21,9; 1Cor 7,25-28], come pure di vedove votate alla sacra vedovanza [cf 1Tm 5,9] (l’ordo viduarum non è però stato ripristinato); di tale forma occorrerebbe però chiarire ulteriormente la collocazione (ad esempio, occorre chiarire se il fatto che tale ordo sia solo femminile sia solo contingente; in realtà per questa anomalia in alcune diocesi l’ordo virginum viene percepito come una forma di collaborazione pastorale con il vescovo, quasi analoga a quella del clero maschile, piuttosto che come forma di vita consacrata).

Quanto invece alla funzionalità ecclesiale, il carisma della vita consacrata è suscitato dallo Spirito nei diversi aspiranti in ricerca di vocazione, ma solo con il riconoscimento ufficiale davanti alla Chiesa (ad esempio, tramite il vescovo o i responsabili di una co­munità peculiare) il carisma di vita consacrata viene conferito al singolo e da lui stabilmente assunto, e così di­viene ministero, fonte di operazione a gloria di Dio, a beneficio della Chiesa intera e per la salvezza del mondo.

In tutto questo contesto, matrimonio e celibato (come del resto lo stato laicale e quello clericale) non sono grazie san­ti­ficanti, ma sono grazie «gratis datae»: sono cioè due carismi comple­men­tari che edificano la Chiesa , anche se in maniera diversa.

Poiché i carismi in senso stretto non presuppongono la grazia o la maggior santità in chi li ha, così, nel caso del ministero ordinato, non è che il pastore sia più santo del laico, ma ha un dono particolare; così il vescovo non ha più virtù, ma ha un carisma sa­cra­mentale a servizio della Chiesa; e per questo può dire: “Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano” [3]. Ma lo stesso vale per il celibato e il matrimonio. Non è che la santità del celibe sia in virtù del celibato necessariamente più grande di quella dello sposato.

La distinzione carismatica di matrimonio e celibato non è solo finaliz­zata a una divisione di azioni (in particolare, per gli sposi, la formazione della famiglia), ma anche e soprattutto all’e­spres­sione e rivelazione complemen­tare del mistero dell’a­more di Dio e del matrimo­nio spirituale fra Cristo e la Chiesa preannunciato dai profeti e descritto da Paolo [cf Ef 5,32].

Il connubio fra Dio e uomo viene espresso pertanto positivamente (tramite la presenza coniugale) nel matrimonio, e negativamente (tramite l’as­senza e la solitudine) nel celibato, così da far intuire analogica­mente cosa è l’amore divino con l’esempio dell’amore familiare, ma anche da far capire che l’amore divino è tutt’altro, mediante la solitu­dine celi­bataria: questa duplicità è conforme alla logica catafatica (per analogia) ed apofatica (per dis­simi­glianza) di ogni espressione del Mistero [4]; ulterior­mente, il matrimonio richiama il principio e prolunga la creazione di Dio in questa terra, mentre il celibato richiama la fine dei tempi e anticipa l’avvento della gloria ultraterrena; infine, se il celibato ci fornisce una segno del mistero dell’U­nità divina (che non è solitudine); il matrimonio ci fornisce invece il segno più chiaro del mistero della Trinità, alla cui immagine è stata esemplata la famiglia, immagine che nel disegno originario del Creatore deve però tendere a compiersi nella somiglianza sovran­na­turale, ossia nell’imita­zione di Dio, elemento essenziale della consa­cra­zione [5], tanto che quest’ul­tima è espressa in termini di sposalizio o “connubio” [CIC can. 607, § 1].

Richiamando poi l’osservazione agostiniana sulle nozze di Abramo (sopra citata), pos­siamo concludere che la compresenza di celibi e sposi nella Chiesa deve servire anche a fornire (gli uni agli altri) un modello visibile per assimilare interiormente e “in a­bi­to” i valori di entrambi gli stati di vita, così da avere sposi con cuore verginale e celibi con cuore sponsale (e quindi soli senza solitudine): ma allora matrimonio e celibato sono due modalità complementari per esprimere l’amore di Dio e verso Dio; e Maria, che è la prima consacrata (in quanto “umile serva del Signore”), le ha per dono straordinario di Dio vissute entrambe (in quanto Vergine, e in quanto Sposa e Madre).

Guardando agli sposati, i celibi sono aiutati ad essere sposi pur senza un coniuge, padri pur senza figli propri, figli ma di­stac­candosi dai propri genitori (lasciando cioè interiormente “il padre e la madre” [Gen 2,24], per vivere come gli sposi una vita propria in obbedienza alla chiamata di Dio).

Insomma, la consacrazione e gli stati di vita (celibatario o sponsale) si trovano su due piani diversi: la prima su quello della grazia santificante e dell’“esser‑di‑Dio”; i secondi invece su quello dei carismi, ovvero nelle concrete modalità dell’“agire‑per‑Dio” (che è innanzitutto un far‑vedere in modi complementari e diversi l’invisibile Dio, e che quindi non è riducibile ad attivismo). Matrimonio e celibato potrebbero essere ricon­si­de­rati come due modalità carismatiche per esprimere l’amore a Dio, formulabili rispetti­vamente come «Dio soprattutto» (amando il coniuge in Dio secondo Dio) e «Dio solo» (amando Dio senz’altro coniuge).

Richiamandoci alle considerazioni fatte nella premessa, la consacrazione dei celibi corrisponderebbe così al sacrificio di sé nella modalità dell’olocausto, secondo una simbologia già fatta propria dalla tradizione spirituale [6]; viceversa, la consacrazione degli sposati corrisponderebbe al sacrificio di sé nella modalità del sacrificio delle primizie: il consacrato sposato, insomma, offri­rebbe a Dio le primizie della sua vita coniugale e familiare (si pensi all’astinenza prematrimoniale dei fidan­zati e di quella pe­riodica degli sposi, anche in vista di una paternità e maternità responsabile), come simbolo di una offerta interiore egualmente totalizzante (come quella dell’o­lo­causto), ma senza la conseguente privazione del bene offerto a Dio.

Di con­seguenza, è possibile vivere lo spirito della con­sa­crazione in qualsiasi carisma o stato di vita: quindi anche nel matrimonio.


[1] Questa distinzione, che avevo anticipato in un articoletto divulgativo, fu frettolosamente li­quidata da un anonimo censore, il quale ribadì che matrimonio e celibato non erano carismi, ma stati di vita: non sapeva, il solerte censore, di aver censurato l’Apostolo Paolo…

[2] Cf Bonaventura, De donis, 1 e 6.

[3] Agostino, Sermone 340.1 (dubbio); e 301A.8: «Aliud est, quod sumus propter nos; aliud, quod sumus propter vos. Christiani sumus propter nos, clerici et episcopi non nisi propter vos».

[4] Già Tommaso d’Aquino notava: “Poiché nessun segno corporale può esaurientemente rap­presentare un significato spirituale, occorre a volte prestar più segni a significare la medesima realtà spirituale. [Ad esempio,] il matrimonio spirituale fra Cristo e la Chiesa, [che] possiede tanto la fecondità (per cui siamo rigenerati come figli di Dio), quanto l’incorru­zione (poiché Cristo si è scelta la Chiesa non avente né macchia né ruga) […], dovette venir rappresentato con segni diversi […]: come infatti mediante il sacramento del matrimonio viene rap­presen­tato il matrimo­nio spirituale quanto alla fecondità, così dunque occorre che ci sia qualcosa che rappresenti il medesimo matrimonio spirituale quanto alla sua integrità: e questo accade nella consacrazione [«ve­latione»] delle vergini” [In Sententiarum libros, 4.38.1.5].

[5] Cf Jean Beyer, Le mariage chrétien est sacrement, in Renouveau…, cit., p. 167-179, ma in particolare p. 173: «Il matrimonio è ad immagine della vita divina, non vita divina: per entrare in effetti nella vita divina gli sposi si [devono] separare, [nel senso che] il loro matrimonio [si deve trasformare…] per divenire in pienezza filiazione divina nel Figlio […], contemplazione del Padre, amore dello Spirito».

[6] Cf ad esempio Giuseppe Lazzati, Il demonio meridiano [1943], in Il Regno di Dio è in mezzo a voi, vol. 1, Istituto Secolare Cristo Re, Milano 1976, p. 38.