Un modo di dire o un modo di vita? (1988)

Il più delle volte i cristiani sembrano persone oppresse dal peso dei doveri. Devono andare a Messa, devono pregare, devono essere casti, devono andare al lavoro, devono andare a trovare un ammalato, e così via.

Si vede tutto come un obbligo e un peso.

Chi cristiano non è, certamente non può essere attratto dal grave peso della religione cattolica. A volte la parola “devo” è soltanto una espressione culturale popolare che non corrisponde esattamente alla propria generosa e felice interiorità. Quando però non è così, essa denota una situazione per lo meno ambigua della propria fede e della propria religiosità. Infatti sembra che tutto venga imposto, e che, quindi, l’essere cristiano significhi non essere liberi.

Essere battezzati, redenti, santificati è indice di una liberazione operata da Dio che ci toglie dal male per introdurci nella libertà di figli di Dio ed eredi della sua gloria. Quindi già all’inizio della vita cristiana è chiaro che è Dio che prende l’iniziativa per liberarci dal male. Il seguito va visto con la stessa visuale e cioè che è Dio che prende sempre l’iniziativa liberamente e amorevolmente.

Gesù ci aspetta alla Messa, ove ci dona se stesso, perciò non è giusto dire devo andare, bensì voglio andare, vado con gioia perché ricevo Gesù, il dono più grande che si possa ricevere.

Tutti gli obblighi e i doveri che sentiamo pesare su di noi sono tali perché non li guardiamo con gli occhi giusti.

Quando ho scritto la giaculatoria «I miei occhi siano i tuoi occhi» ho inteso molte cose importanti, ma anche il desiderio che Dio ci faccia vedere le realtà per il verso giusto.

A me sembra di dover rivedere il nostro atteggiamento in chiave più libera, più vera, più divina, e aiutare a liberarci da tutti quei pesanti doveri per vivere le stesse realtà come dono divino.

Riprendo gli esempi che ho riportato all’inizio e li leggo con gli occhi di gioia che mi illuminano il cuore e fanno di me un essere bene inserito nella religione. Il Signore desidera intrattenermi e farmi riposare con lui, abituo il mio corpo a vivere la resurrezione, mi appresto a collaborare con Dio nelle realtà temporali, un amico ammalato mi insegna ad affrontare le peripezie della vita, mi dà l’occasione di usare una cortesia al mio Signore, eccetera

Cambiare il proprio modo di esprimersi è importante, ma non tanto quanto il desiderio di convertirsi dal di dentro; parlare ma soprattutto pensare nella verità divina e vivere nell’amore di Dio.

Dio ci educa e ci santifica continuamente: a volte con la sua parola e i suoi sacramenti e sempre nello svolgersi della vita. Dio, che ha sempre l’iniziativa, in ogni situazione ci invita a essergli fedeli. In ogni circostanza siamo chiamati a seguire la sua volontà che è per noi santificante. Se così è (ed è così) non tanto il peso della legge ci rende cristiani, quanto l’amore della chiamata di Dio. Essendo Dio sempre con noi, faremo attenzione di restare sempre con lui e quindi di accogliere positivamente i suoi segnali.

Per restare fedeli alla nostra vocazione tutti siamo invitati ad esprimere i modi che riteniamo siano necessari per sostenere la nostra santificazione.

In modo particolare si devono sentire più impegnati nell’ascolto e nelle valutazioni i componenti del consiglio, che devono trovare i mezzi adatti affinché tutta la comunità sia sorretta nella vocazione. Non si deve improvvisare il programma, ma cercare la grazia e la luce di Dio, perché sia lui a indicare i modi utili per servire la comunità.

Certamente egli non ci parlerà a voce, ma potremo interpellarlo e sentirci aiutati ascoltando l’insieme di tutti i suggerimenti dei fratelli e delle sorelle.

Anche le indicazioni che ci vengono dalla Costituzione sono regole che ci indicano la volontà di Dio, pertanto non vanno accolte con superficialità, noia, pesantezza. L’insieme di tutta la Costituzione è il programma d’amore di Dio che ci indica le sue varie proposte per aiutarci ad accogliere la santificazione e diffondere il suo regno. L’articolo 2 ci ricorda che è necessario avere lo spirito del “resto di Israele” ovvero avere fiducia nella guida di Dio e perciò coltivare un atteggiamento concreto di docilità e disponibilità allo Spirito Santo che agisce sempre per il nostro bene.

Con la luce della fede si riesce a comprendere che non si deve vivere la vocazione come un vincolo di norme, ma come un percorso familiare tratto dal cuore pulsante del Vangelo. Il nostro filiale atteggiamento deve riconoscere anche nei particolari la verità e accogliere serenamente i segnali che indicano il percorso tracciato da Dio.

È bene che la nostra spiritualità metta in evidenza la limitatezza della vita terrena come periodo di anni e come valore reale in confronto alla vita eterna di gloria. Penso che alcune difficoltà non riusciamo a gestirle bene perché troppo poco si pensa al tempo breve della vita terrena e alla meta definitiva del Cielo. Anche la mancanza di una sufficiente riflessione sul trapasso da questo all’altro mondo può favorire l’attaccamento al proprio io e far prevalere un senso di pesantezza obbligante anziché liberante.

Affinché la nostra vita sia vissuta nella sua volontà, è giusto riconoscere che non siamo un popolo oppresso da norme di vita e da tracciati impervi, ma siamo i congiunti di Dio che degnamente e amorevolmente desiderano esprimere la loro gioia derivante dall’essere “Cristiano”.

Essere cristiani è un indice di predilezione, vivere da cristiani vuol dire aver accolto un programma che ci rende liberi da ciò che non è il vero bene. La fedeltà ad ogni parola evangelica ci dà la capacità di seguire serenamente la prassi di vita dei santi che sanno vedere e gustare la gioia intima del Signore.

Ricordiamo che Gesù non ci ha chiamati per darci dei pesi, ma per liberarci dal maligno e unirci a lui.

Con queste sicurezze sarà più facile e più radioso il cammino vocazionale che, mai mi stancherò di ripeterlo, è un dono, un grande dono.

Fermiamoci in preghiera per accoglierlo, camminiamo nelle virtù per avvalorarlo e riposiamo festanti e abbandonati sul petto di Gesù, nostro amato redentore, per affermare che il nostro è un modo sereno di vita.