Poveri, cioè liberi, per amare (Estratto dal testo completo, del 1997)

1. Essere poveri di spirito significa essere liberi di amare

Parleremo della povertà: e la povertà non è miseria. Noi sappiamo che il Signore è contro la miseria, invece ama, desidera e accoglie la povertà in spirito. Quindi, quando sentiremo certe affermazioni sulla povertà dovremo stare un po’ attenti; bisognerebbe avere il tempo di penetrarle, di spiegarle: abbiate pazienza.

È evidente che se si usa la parola “povertà” nel senso di “essere totalmente abbandonati a Dio”, oppure nel senso che “Dio mi basta”, non la si può prendere alla lettera, perché se io lascio i miei occhiali, poi non ci vedo più; se non ho le forbici, come mi taglio le unghie? Oppure, se non ho le posate, come mangio? Quindi bisogna accogliere il concetto, il senso spirituale, della povertà. Però bisogna anche stare attenti al rischio che con la scusa del concetto si faccia, poi, la nostra volontà e non la Sua. Quindi abbiate pazienza e ognuno ascolti bene ciò che lo Spirito gli suggerisce.

Allora, vogliamo farci “poveri per essere liberi di seguire Gesù”. Ecco che cos’è la povertà: è una libertà. Essere poveri significa essere liberi di amare.

2. Nella sua incarnazione, il Signore si è fatto liberamente povero

L’amore del Signore si manifesta nel suo abbandono totale al Padre, che a sua volta lo ricambia con lo stesso amore che è Spirito Santo, unico Dio. Il Padre è sempre unito al Figlio, che nella lode, realizza la sua volontà.

«Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome al di sopra di ogni altro nome» [Fil 2,6-9].

L’incarnazione non separa il Figlio dal Padre, ma lo rende fratello degli uomini: un fratello unico che nella sua natura umana conserva anche quella divina. Si è fatto uomo vero e vive la sua umanità come ogni altro uomo, ma senza mai commettere peccato. Lui è l’uomo‑Dio che si offre in olocausto per noi e per noi vive una vita che dà gloria al Padre. Ma ricordiamoci pure che il Signore Gesù è vero uomo. Infatti qualche volta idealizziamo la sua umanità trasformandola e trasportandola nella divinità. Invece no: è divino, ma è umano.

È importante addentrarsi in questi concetti ed entrare in relazione con un Gesù che è uomo oltre ad essere Dio. Fare connubio di queste due realtà ci fa conoscere con esattezza Gesù Cristo, che così diventa un maestro più comprensibile e più utile. Lui vive per il Padre e ci insegna a seguirlo per partecipare con lui alla gloria eterna. Per fare questo è sceso dal Cielo ed è venuto ad abitare con noi, anche nell’Eucaristia.

Gesù fa ogni cosa a lode del Padre e lo fa liberamente: nessuno lo può costringere. Anche noi siamo chiamati a fare tutte le cose per il Signore liberamente, con cuore grande, che non subisce, ma accoglie.

La libertà di Gesù offre vigore alla sua umanità e lo distacca dalla ricchezza che non lascia il cuore libero di amare:

«Egli da ricco che era si fece povero in nostro favore, per arricchirci con la sua povertà» [2Cor 8,9].

La vita di Gesù su questa terra sembra una vita sbagliata, quasi inutile, una vita povera con una missione che all’uma­nità sembra fallita, mentre in realtà egli la percorre in visione della gloria. È sempre lui che sceglie il suo modo di essere povero: non ha mai brame di potere, di conquista, di accumulo, di sfarzo. Nel Vangelo, dice: “Non è questo il mio Regno” [Gv 18,36].

Adamo ha bramato di essere come Dio ed è diventato povero, non più libero, legato alle cose, sottomesso alle cose. L’uomo brama di dominare, si attacca alle cose e vuole in esse regnare. Noi abbiamo l’ansia di prendere il primo posto, di stare in alto, di avere una buona posizione, una buona reputazione.

Gesù invece si spoglia di ogni cosa, e, per amore, diventa realmente un servo.

Il Signore è venuto per i peccatori e per i poveri, e il povero attira il Signore.

Se c’è un bambino in una culla fra i pizzi e un bambino buttato nella pattumiera, Dio li ama tutti e due, ma da chi andrebbe secondo voi? Dal più povero.

Non è il finto povero che attira Dio, ma il vero povero.

Allora perché non mi metto volontariamente anche io in quella stessa condizione, così che Dio venga da me? Questa è la “furbizia come quella del serpente e l’ingenuità come quella delle colombe”: abbracciando la povertà attiriamo il Signore e così diventiamo beati.

D’altronde, lo abbiamo detto prima, lui era povero, lui che era il padrone del mondo.

3. Imitiamo la povertà e l’umiltà di Gesù

Se vogliamo imitare Gesù, troviamo nel Vangelo vari esempi della sua vita povera e umile.

In Egitto, insieme ai suoi genitori, era un emigrante. Ritornato in patria, viveva a Nazaret, piccolo e insignificante paese della Galilea, di cui si dice: “Che cosa volete che venga di buono da Nazaret!”.

Il segno più alto della sua povertà lo si trova in Gesù crocifisso: in mezzo a due ladroni è spogliato come loro, non possiede neppure il perizoma per coprirsi. Certamente non è la sua nudità il valore più alto del suo sacrificio, ma è segno di povertà, di spogliamento, di donazione.

Gesù indica il valore della povertà nelle parole: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli» [Mt 5,3]; e ancora:

«Non procuratevi oro, né argento, né monete di rame nelle vostre cinture, né bisaccia per il viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone perché l’operaio ha diritto al suo sostentamento» [Mt 10,9-10].

Però in altre circostanze raccomanda di prendere con sé l’occorrente [Lc 22,36]: il senso è dunque di “non accumulare” qui tesori che non servano a nessuno [Mt 6,19].

Gesù è energico nell’indicarci il modo di essere poveri, ma ci assicura che lui pensa a noi:

«Non vi affannate dicendo: “Che cosa mangeremo?, oppure “Che cosa berremo?” oppure “Di che vestiremo”. Infatti di queste cose si assillano i pagani, ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il Regno di Dio… e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta» [Mt 6,31-33].

«“Considerate i gigli del campo come crescono! Non faticano e non filano. Eppure vi dico che neanche Salomone in tutta la sua magnificenza era vestito come uno di essi. Ora, se Dio veste in tal modo l’erba del campo, che oggi c’è e domani viene gettata nel forno, non lo farà molto più per voi, gente di poca fede?”» [Mt 6,28-33].

Il Signore ci ricorda anche che come lui possiamo essere scacciati:

«Tutti nella sinagoga furono pieni di furore, e levatisi lo scacciarono fuori della città» [Lc 4,28-29].

«“Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; ma poiché non siete del mondo per questo il mondo vi odia”» [Gv 15,18-19].

Ritornando nell’ambito della povertà materiale, vediamo Gesù che, come un vero povero, non ha un recipiente per attingere l’acqua e chiede alla samaritana: “dammi da bere” [Gv 4,7].

Facciamo in modo che la povertà diventi un mezzo efficace per essere veri discepoli di Gesù:

«La vostra condotta sia senza avarizia; accontentatevi di quello che avete, perché Dio stesso ha detto: “Non ti lascerò e non ti abbandonerò”» [Eb 13,5; cf Gs 1,5].

4. La povertà è segno della vita eterna

Attraverso quali segni oggi la gente coglie meglio la presenza della salvezza mediante i cristiani?

Non attraverso la nostra castità, a cui la gente non crede, anche se la viviamo (e dobbiamo viverla anche se non viene riconosciuta) come dono e atto sacrificale a Dio. E nemmeno attraverso le nostre opere di carità, che alla gente possono sembrare dovute, o perché possediamo, o perché facciamo parte di un’organizzazione, o perché riceviamo offerte e le distribuiamo: magari pensano che siamo anche pagati per questo! Non si riconosce la Carità con la maiuscola, perché non si crede e non si conosce Dio.

In linea di massima, perciò, oggi è la povertà ad essere un segno visibile, riconoscibile e accettato dalla gente. Se uno lascia tutto e si mette all’ultimo posto, vuol dire che crede realmente.

I primi discepoli, “lasciate le loro cose, seguirono” Gesù e furono da lui mandati ad evangelizzare; a loro Gesù ha promesso che “chi lascia” tutto per lui, “già al presente riceverà” insieme alle difficoltà una misura sovrabbondante, “e nel futuro la vita eterna” [Mc 1,18; 10,29].

La povertà è un segno che aiuta l’evangelizzazione, perché con la tua povertà tu mi insegni che credi alla vita eterna e lavori per la vita eterna e non per i tuoi interessi personali.

La povertà è un segno primario per essere credibili, per essere creduti in quello che si dice: essere poveri per scelta interiore che sa metterci con amore all’ultimo posto, quando siamo incompresi, messi da parte, non ascoltati; essere poveri non perché abbiamo poco, ma perché per Dio abbiamo lasciato tutto, in quanto lui ci basta.

Provate a far meditazione su questo “lasciare” tutto: che cosa significa? Bisogna saperlo interpretare, ma occorre lasciare tutto per Dio. È una povertà di fondo, di origine, è una povertà soprannaturale.

Certo non è facile, ma se non si arriva a questo punto non si è liberi. Ci vuole equilibrio per vivere la povertà nel mondo: essere secolari, impegnati nel mondo, non ci vieta di staccarci da tutto mediante un cuore nuovo, con la capacità che viene dalla sapienza, dal dono di Dio. Uso delle cose, ma come ne uso? Sono veramente distaccato, sono veramente libero?

Il distacco da tutto consiste nel non essere attaccati a niente, e non nell’essere privi del necessario o del poco. Ci vuole equilibrio umano nel reale distacco.

Nella nostra vita non deve mancare il segno di una povertà vissuta nell’amore, nella gioia, nella letizia, una libertà che faccia trapelare la nostra unione con il Signore, mostri la nostra fede nella vita eterna e ci aiuti, tramite le rinunce, a fare comunione con chi è affamato.

5. Cerchiamo di coltivare uno spirito povero

Se vogliamo dunque essere un segno della povertà di Gesù, una povertà che lascia liberi, dobbiamo vivere la nostra vocazione nella libertà d’amore. Questo è il punto della povertà: amare. Le radici della povertà devono essere innestate nella spoglia­zione di Gesù Cristo.

La povertà nasce dall’amore e non dalla legge, da una Regola o da una Costituzione. La regola ci può indicare il modo di essere poveri, ma il cuore della povertà sta nell’imitare il Signore e nell’a­scoltare con attenzione la luce, gli impulsi, i messaggi dello Spirito.

Ogni creatura ha un suo modo di essere povera, che dobbiamo rispettare; l’importante è che ognuno sia povero e libero di amare Dio attraverso il suo carisma personale. Si può diventare poveri imitando il Signore “che non aveva dove posare il capo”: come lui spogliarsi di ciò che non è necessario. Non “spogliarsi e poi pentirsi” o perdere la serenità; ma spogliarsi a ragion veduta e in un percorso di libertà.

Più che lasciare le cose – e quelle non necessarie si devono lasciare, non per un comando, ma per la sapienza del cuore –, è necessario lasciare le nostre vedute, la nostra volontà, le nostre preferenze. Accettare con umiltà il compito che ci affida Dio, anche quando sembra in contrasto con le nostre idee.

Attraverso la virtù di povertà e tutte le altre virtù evangeliche dobbiamo esprimere un modo di vivere pieno e coinvolgente che porta all’esperienza di vita con Cristo.

Povertà e umiltà sono due sorelle che vanno bene a braccetto. La povertà stimola la semplicità e la semplicità stimola la povertà. Può essere utile, o addirittura necessario sbarazzarsi delle cose, ma la prima povertà deve essere dentro, nel nostro intimo, mediante l’abbandono fiducioso a Dio.

La povertà, di per sé, non fa bella figura; il povero che non accetta di essere tale fa soltanto tenerezza. La Chiesa non vuole tali poveri; essa ha bisogno di santi, ma la povertà vissuta in spirito aiuta a diventare santi.

6. Cerchiamo di fare scelte concrete di povertà

Per quanto concerne le responsabilità di ognuno di noi nel vivere la propria povertà, sono propenso a ritenere che si possa fare meglio e di più. È necessario aprire maggiormente l’anima verso i valori ultimi e definitivi e occuparsi più della gloria futura che non delle comodità terrene. Cioè, essere più poveri nel cuore per essere più attivi nella nostra missione e così più generosi nel servire il prossimo nell’evangelizzazione.

Per poter promuovere ed organizzare ciò, dobbiamo ridurre lo “spazio” per noi: dobbiamo diventare cioè più poveri di quel tempo che spesso viene consumato per i propri piaceri.

In vista di una testimonianza più visibile ci si deve esaminare nelle varie scelte che si fanno nei luoghi in cui siamo.

Non vi nascondo che all’inizio vivere la povertà mi costava: oggi sono felice di essere povero; è molto bello godere di essere povero spiritualmente e materialmente.

Prego perché i cristiani riescano ad accogliere la povertà come una gioia molto più grande di quella che i ricchi cercano nell’essere sempre più ricchi.

Noi che apparteniamo al mondo del benessere, dobbiamo sapere che questo benessere che in realtà è un ben-avere che lascia altre parti del mondo nel malessere. Sul piano sociale come cristiani, per quanto ci è possibile dovremmo influenzare i governi delle nazioni, le società industriali e commerciali, a prendersi le responsabilità per realizzare una giustizia più fraterna secondo la cultura sociale che emerge dal Vangelo. Noi dobbiamo dare l’esempio, in base alle nostre possibilità, di scelte di vita evangelica vissute sulla nostra pelle.

Mi piace osservare come San Francesco era innamorato della povertà: la amava, la chiamava sua sposa. Io desidererei che noi amassimo la povertà; invece alle volte sembra che la si subisca.

Ai giovani alle prime armi è necessario con molta prudenza insegnare come vivere poveramente: è necessario indicare loro i modi, in modo personalizzato, stimolarli a cogliere la bellezza e il valore di una vita senza grandi pretese: per lo più è un cammino lungo, se lo si vuole percorrere senza traumi e grosse difficoltà. Agli adulti, invece, è necessario ricordare di vivere la povertà con amore, con soddisfazione, con letizia.

Certamente, dovrò cercare una povertà che tenga conto dei doveri verso gli altri e della necessità di gestirmi. Ad esempio, è bello essere libero di vestirmi poveramente; però la carità mi dice che se vado ad un matrimonio non posso far fare brutta figura allo sposo o alla sposa. Ma un conto è adeguarmi alla carità e un conto è accogliere invece la vanità.

Io mi ricordo che quando ero giovane propagandista dell’Azione Cattolica ci dicevano: “State bene attenti a non andare a far propaganda nei paesi con il motorino, altrimenti avete già chiuso i vostri contatti con i ragazzi”, perché essi andavano a piedi o in bicicletta. E lo stesso vale per noi oggi: bisogna non solo vivere la povertà, ma testimoniarla in maniera comprensibile alle persone che ci stanno intorno.

E invece: “Che bello, non ci manca niente!”. Ma è proprio necessario avere tutte le cose? Anzi, se ci manca una cosa, subito la mamma ce la regala, l’amico ce la regala. Apparentemente, tutto è scontato e tutto serve.

Ma perché io sono nato in un paese ricco e l’altro è nato in uno povero? E perché mio figlio deve avere dieci gelati e quell’altro deve morire di fame?

Guardate come è vero: perlopiù tendiamo sempre ad accrescere il nostro tenore di vita. Passiamo dalla macchina piccola alla grossa; è raro invece passare dalla macchina grossa a quella piccola. C’è bisogno di una casa più grande, ma quando l’abbiamo grande e non ci serve più così, non si ritorna a quella piccola.

Si hanno dei vestiti, si danno ai poveri, e noi li comperiamo nuovi. No, tu usi fino all’ultimo il tuo e quello nuovo glielo regali al povero, così, poveretto, almeno una volta anche lui mette qualche cosa di nuovo.

Se devo prendere o comprare qualcosa, e ho varie possibilità, non mi devo sentire forzato a scegliere quella che proprio non mi piace, ma in spirito di povertà posso prendere, anziché quella che mi piace di più, quella che mi piace un po’ meno. Così una certa povertà è scelta a sorgente e difesa di vita interiore e nella condivisione non solo di beni, ma di vita con i più poveri.

7. Esaminiamoci in profondità

Come esame di coscienza, faccio qualche esempio esagerando, per non colpire nessuno. Se a casa ho un servizio di cinquanta piatti da tavola, ma sono trent’anni che non lo uso, perché tenerlo? Per vanità, per prestigio? Allora che lo tengo a fare? Oppure, chi ci ha detto (esagero naturalmente) che dobbiamo fare cinque mesi di ferie? La nostra salute? E quelli che fabbricano i diversi beni di consumo lo fanno per far piacere a noi? No, ma perché ci guadagnano. E allora perché comprarli se non ci sono necessari?

Forse che il Signore si accontenta di qualche offerta per i poveri o per le missioni?  Diciamo “Padre nostro”, ma in realtà pensiamo “mio”, altro che “nostro”! Vogliamo tenerci strette le nostre cose, non metterle in comunione.

Non è cristiano questo: allora dobbiamo rinnovare il nostro cristianesimo.

Tante meditazioni non ci hanno cambiato molto e il nostro tenore di vita non è più virtuoso: un po’ di morale, un po’ di liturgia, e finisce lì… Ma il Signore ha detto che non vuole essere pregato in questo o quel tempio, ma “adorato in spirito e verità”.

8. Ricostruiamo come Francesco la casa del Signore

Mettete nel giusto equilibrio una povertà che ci lascia più liberi di amare Dio ed essere testimoni attraenti, convincenti e avvincenti. Sii lieto, in quanto Dio ci basta.

Allora la salvezza va messa in evidenza rinnovando il cristianesimo a partire dalla povertà, come fece Francesco, quando Gesù gli disse di andare a riparare la sua casa, e lui è andato a ricostruire la chiesa di San Damiano, ma poi si è accorto che doveva ricostruire la Chiesa con la testimonianza di una vita povera.

Vi rendete conto perciò che ci vuole il tempo per restare con il Signore? Solo allora, come Pietro sul Tabor, potremo dire: “È bello restare qui, che stiamo bene”. Anche noi possiamo dire di star bene quando siamo con il Signore. Altrimenti non si sta bene e si pensa che il cristianesimo sia pesante, pieno di morale, che non capisca niente, mentre il mondo è tutta un’altra cosa… E noi siamo diversi da chi pensa queste cose?

Guardate che spesso anche quelli che vengono in Chiesa dicono: “Andremo in paradiso se c’è”. Se c’è?! Ma ci credi alla vita eterna?

Anche quando andiamo a fare la comunione, come la faccio, come le facciamo? “Questo è il mio corpo”, dice Gesù nel­l’Eu­caristia; ma lì c’è anche il nostro corpo. Ce ne rendiamo conto?

Gesù è Figlio di Dio e noi siamo chiamati ad essere figli di Dio in lui: si è incarnato, ha la nostra carne e ci ha redento morendo per noi. Dice a noi: “Dove siete in due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a voi”. E al Padre: “Come io e te siamo una cosa sola, fa’ che tutti siano una cosa sola e lì ci siamo noi”.

Ecco la bellezza, la cosa stupenda, meravigliosa, del cristianesimo.